La Cassazione ribadisce che, ai fini della deducibilità dal reddito d’impresa di costi infragruppo derivanti dalla partecipazione a cost sharing agreements, non è sufficiente che la spesa sia contabilizzata dalla società, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare la ragione e la coerenza economica della stessa con l’attività d’impresa, risultando diversamente legittima la negazione alla deducibilità se e nella misura in cui si riferisce a ricavi che concorrono a formare il reddito o ritenuti sproporzionati all’oggetto sociale
Con la sentenza n. 19166/2021 la Corte di Cassazione è intervenuta su un contenzioso tributario fra una società italiana di produzioni cinematografiche e televisive (anche la “Società” o “Contribuente”) e l’Agenzia delle Entrate, dopo che quest’ultima al termine di una verifica fiscale sul periodo d’imposta 2004 aveva notificato un avviso di accertamento sulla base di due rilievi: (1) errata imputazione temporale di componenti negativi di reddito in pendenza di giudizio civile e (2) indebita deduzione di costi relativi a contratti infragruppo per servizi resi dalla controllante non residente, nell’ambito di accordi sulla ripartizione dei costi sottoscritti dal gruppo (cd. cost sharing agreements, nel seguito “CSA”). I precedenti gradi di giudizio della giurisprudenza di merito avevano fornito esiti contrastanti sul procedimento contenzioso, ponendosi fra un integrale accoglimento del ricorso del Contribuente in primo grado (CTP Roma, sentenza n. 275/47/10) e il parziale rigetto dell’appello presentato dall’Agenzia delle Entrate (CTR Lazio, sentenza n. 348/4/12) con riferimento al recupero dei costi relativi al contratto di CSA di cui al rilievo sub-(2). Ciò veniva motivato in ragione della carenza probatoria fornita dall’Ufficio sulla verifica del comportamento elusivo tenuto dal Contribuente nell’operazione infragruppo oggetto di verifica, senza che fosse proposta una ricostruzione controfattuale basata sull’utilizzo del metodo TNMM (Transaction Net Method Margin) – quindi, comparando il margine netto conseguito nell’operazione infragruppo con il margine netto realizzato da soggetti indipendenti in transazioni comparabili (cd. “confronto esterno”) – che avrebbe richiesto di “individuare il mercato di riferimento per rispettare il principio della comparabilità delle transazioni” e di “analizzare le visure camerali per ottenere le informazioni in ordine all’indice di indipendenza e all’attività esercitata con analisi puntuale dei bilanci”, così da individuare il set di comparabili su cui “poteva essere calcolato l’operating margin su una media di tre anni, determinando un range di percentuali di margini di profitto con cui confrontare quello proposto dalla società controllata”.
Il tema su cui i giudici di Cassazione sono stati chiamati ad intervenire va quindi ricondotto alla regolamentazione dei servizi infragruppo e alla verifica di conformità dei prezzi di trasferimento al principio di libera concorrenza postulato dall’art. 110, comma 7 del TUIR.
Nello caso specifico, l’attenzione è stata rivolta ai cd. Accordi per la ripartizione dei costi. Sull’argomento, l’Amministrazione finanziaria ha fin’ora fornito limitati orientamenti di prassi (risalenti alla Circolare n. 32/1980), definendo i CSA come “accordi stipulati da varie unita’ del gruppo localizzate in Paesi diversi, in base ai quali i costi relativi alla ricerca ma anche ad altri servizi disponibili all’interno del gruppo sono distribuiti tra le varie consociate in relazione ai benefici che ciascuna unita’ puo’ trarre dalla loro utilizzazione“. L’oggetto di tali accordi viene pertanto delimitato in maniera molto ampia, potento spaziare dai diritti di utilizzazione di brevetti, marchi e altri beni immateriali disponibili all’interno del gruppo, fino all’affiancamento nei servizi di assistenza tecnica, amministrativa, contabile e marketing. Nell’ambito delle Linee Guida OCSE (2017) in materia di prezzi di trasferimento, la trattazione dei CSA viene ricondotta al Capitolo VIII “Cost Contribution Arrangements” (anche “CCA”). Come premessa, vi è da chiarire che molto spesso la dottrina – proprio in virtù di tale rimando – tende a fornire una rappresentazione paritetica degli accordi di CSA e di CCA, sicchè i due istituti tendono a sovrapporsi. Pur tuttavia, qualche differenza può essere evidenziata. La nozione di CCA è stata infatti mutuata dalla prassi internazionale (OCSE) solo negli anni ’90, mentre i CSA affondano le proprie radici in epoche precedenti (come si è visto nella Circolare n. 32 del 1980 o come avvenuto in altri paesi, quali gli Stati Uniti, dove l’introduzione dei CSA può essere ricondotta agli anni ’60). In linea di principio, i CCA si pongono l’obiettivo di aggregare delle risorse individuate all’interno del gruppo multinazionale per poi condividere (oltre che rischi e competenze legate all’attività sviluppata) i relativi benefici fra i diversi partecipanti sulla base del contributo fornito da ciascuna di queste (anche con il meccanismo denominato “buy in” o “buy out payment“, nel caso di ingressi o uscite dall’accordo durante la fase di sviluppo del bene immateriale o materiale individuato). Tali accordi [1] possono fare riferimento tanto a servizi “generici” riconducibili ai cd. “benefits CCAs”, come possono essere quelli di assistenza amministrativa e contabile, servizi di tesoreria o assistenza tecnica e commerciale – che tendono quindi a regolamentare l’acquisizione e condivisione di servizi da cui derivano benefici attuali per i partecipanti – quanto ad attività specifiche e peculiari dell’attività d’impresa (per esempio, la condivisione di spese di R&D) pensate nell’ambito dei cd. “development CCAs” e concernenti lo sviluppo di beni immateriali (o materiali) da cui potranno conseguire benefici futuri per gli aderenti. Secondo la definizione fornita dall’IBFD International Tax Glossary (Amsterdam, VII ed. 2015), tali accordi “generally take form of contractual arrangements rather than a separate legal entity. Accordingly, the results of a CCA accrue to and may be exploited directly by the participants. CCAs are commonly entered into with regard to the joint development of intangibles property but, unlike the similar concept of a cost-sharing agreement, under the OECD’s definition, are not restricted to such activites“. Viceversa, i CSA non contemplano la fase di sfruttamento dei beni immateriali sviluppati, limitandosi alla regolamentazione dei costi da sostenere fra le diverse entità del gruppo per la fase di ricerca e sviluppo. Il glossario IBFD definisce infatti tali accordi come un “arrangement between two or more participants to share the costs for research and development of intangible assets. Such arrangements are similar to cost contribution arrangements but do not extend beyond the development of intangible property“. In ogni caso, CCA e CSA si distinguono dai generici servizi infragruppo, affrontati nel Capitolo VII delle Linee Guida OCSE (cd. Service Agreements), che possono riguardare una vasta gamma di servizi amministrativi, tecnici, finanziari e commerciali, nonché funzioni di gestione, di coordinamento e di controllo[2] in cui un’entità (solitamente la capogruppo) fornisce uno o più servizi specificatamente individuati a una o più società consociate, a fronte di un corrispettivo pattuito (la prassi gestionale ricorre spesso al riaddebito del costo sostenuto dal prestatore per la messa in opera del servizio, maggiorato di un mark-up).
Ciò posto, uno degli argomenti più spigolosi nell’ambito delle verifiche fiscali in materia di CSA attiene certamente al tema della congruità della spesa, dove la prassi amministrativa sottolinea che “I costi sostenuti (…) sono ripartiti tra le affiliate solo se afferenti ad attività di interesse generale per il gruppo: al contrario, i costi sostenuti nell’interesse esclusivo di una sola unità dovranno essere imputati esclusivamente alla beneficiaria”[3]. Ecco che, nella sentenza analizzata, l’Agenzia delle Entrate contestava al Contribuente proprio l’insufficienza del set documentale proposto nel corso della verifica per giustificare la deducibilità della spesa sostenuta nei confronti della controllante, affermando che questa si fosse limitata ad esibire ai verificatori solamente due fatture relative ad un contratto di servizi, da cui non si poteva evincere l’effettività dei servizi resi dalla controparte. In particolare, lamentava la presentazione di un contratto contenente un “mero elenco delle prestazioni da cui non emergono la tipologia delle prestazioni ricevute, i singoli momenti della loro effettuazione, le modalità di esecuzione e l’impiego di personale della casa-madre”, oltre a “documentazione costituita da e-mail e report relativi alle produzioni in programmazione nell’ambito del gruppo”. Quindi, secondo l’Ufficio, ne derivava la mancata dimostrazione sull’utilità ed effettività del servizio ricevuto dalla Contribuente e, quindi, del costo sostenuto e dedotto dalla stessa nel periodo d’imposta oggetto di verifica.
Nelle motivazioni alla sentenza, i Giudici di Cassazione hanno ribadito che la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali su servizi prestati dalla controllante è subordinata all’effettività ed inerenza della spesa in ordine all’attività di impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che ne sia derivato a quest’ultima, non ritenendo sufficiente l’esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti dalla controllante alle controllate e la fatturazione dei corrispettivi. Richiedendo, al contrario, l’allegazione di quegli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio. Sulle prove documentali per attestare la deducibilità dei costi derivanti dai servizi erogati dalla capogruppo, secondo la Corte non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, e risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa. Con riguardo alla dimostrazione dell’inerenza e la congruità del costo sostenuto, si tratta invece di verificare la sostanza aziendale ed economica dell’operazione e di metterla a confronto con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti, valutando la conformità a queste e l’utilità obiettiva secondo logiche postulate dal principio di libera concorrenza in materia di operazioni infragruppo. Sarebbe dunque compito del contribuente fornire gli elementi atti a supportare la deducibilità dei costi sostenuti, dimostrando l’effettiva utilità degli stessi anche se a tali costi non corrispondono direttamente ricavi in senso stretto.
In conclusione, ogni valutazione in tema di inerenza dei costi sostenuti da un’impresa nell’ambito di CCA/CSA stipulati a livello di gruppo non può prescindere ad un’analisi in cui il contribuente sarà chiamato a provare e documentare l’imponibile maturato e, dunque, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d’impresa perché in correlazione con l’attività d’impresa (cfr. Cassazione n. 18391/2019). Tale aspetto si intreccia ovviamente con il profilo dell’onere della prova sull’inerenza del costo che, secondo costante giurisprudenza (come ribadito dai giudici di legittimità nel procedimento commentato), incombe sul contribuente dovendo dimostrare l’effettività dei servizi resi dalla capogruppo e la congruità dei costi sostenuti rispetto al prezzo di libera concorrenza, mentre spetta all’Amministrazione finanziaria la prova della maggiore pretesa tributaria, quindi dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese di un gruppo ad un valore inferiore a quello di mercato. In quanto alla verifica del vantaggio economico risalente dall’operazione infragruppo per la società partecipante al CCA/CSA, non potrà ritenersi sufficiente l’esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti dalla controllante alle controllate e la fatturazione dei corrispettivi, richiedendosi, al contrario, la specifica allegazione di quegli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio. A questo fine, la società partecipante dovrà documentare l’effettività della spesa e il beneficio connesso alla partecipazione agli Accordi di ripartizione dei costi considerando, come nel caso dei “benefits CCAs”, se l’attività abbia contribuito a conferire o meno alle entità del gruppo un vantaggio economico e commerciale inteso ad accrescere o mantenere la posizione commerciale. Ciò potrebbe essere eventualmente determinato facendo riferimento ai criteri individuati per la verifica del cd. “test del beneficio” previsto nel caso di servizi infragruppo[4].
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ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11296/2013 R.G. proposto da:
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;
– ricorrente –
contro
Fremantlemedia Italia s.p.a., (già Grundy s.p.a.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, come da procura a margine ricorso incidentale, dall’Avv. Giuseppe Marini, elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via dei Monti Parioli, n. 48;
– controricorrente-ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, n. 348/4/2012, depositata il 30 ottobre 2012.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 12 maggio 2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.
Svolgimento del processo
CHE:
1. L’Agenzia delle entrate emetteva un avviso di accertamento nei confronti della Fremantlemedia Italia s.p.a. (già Grundy s.p.a.), ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e art. 40, e del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, per l’anno 2004, sulla base di due rilievi: mancato riconoscimento delle competenze Grundy-Aran/Endemol, su un giudizio contenzioso “Un posto al sole” per indebita deduzione di costi non di competenza per Euro 881.341,68; indebita deduzione di elementi negativi di reddito relativi alle “management Fees”, con costi non deducibili per Euro 335.191,64, quali costi infra gruppo.
2. La Commissione tributaria provinciale di Roma (sentenza n. 275/47/10) accoglieva integralmente il ricorso della società, mentre la Commissione tributaria regionale del Lazio accoglieva parzialmente l’appello dell’ufficio, dichiarando la legittimità dell’accertamento in relazione agli accantonamenti per costi di transazione, confermando nel resto la sentenza impugnata. Il giudice d’appello, in particolare, con riferimento al recupero di costi relativi a contratti infra-gruppo per servizi resi alla controllata, evidenziava che l’Agenzia, per disattendere il calcolo del transfer pricing avrebbe dovuto fornire la prova della elusività del comportamento tenuto dalla Grundy. Non era, poi, stato individuato il mercato di riferimento per rispettare il principio della comparabilità delle transazioni. L’Agenzia avrebbe potuto avvalersi di una ricostruzione controfattuale basata sull’utilizzo del metodo TNMM (transactional net margin method), comparando il margine netto conseguito da un’impresa associata nelle transazioni infra gruppo, con il margine netto realizzato da soggetti indipendenti in transazioni comparabili. Tuttavia, sarebbe stato necessario analizzare le visure camerali, per ottenere le informazioni in ordine all’indice di indipendenza e all’attività esercitata, con analisi puntuale dei bilanci. Solo una volta individuati i comparables, poteva essere calcolato l’operating margin su una media di tre anni, determinando un range di percentuali di margini di profitto con cui confrontare quello proposto dalla società controllata.
3. Avverso tale sentenza presenta ricorso principale per cassazione l’Agenzia delle entrate.
4. Analogo ricorso veniva presentato dalla società.
5. La società resiste al ricorso principale dell’Agenzia delle entrate con controricorso.
6. Il Procuratore Generale, Dott. Giacalone Giovanni, ha depositato conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle entrate ed il rigetto del ricorso della società contribuente.
7. La società ha depositato memoria scritta.
Motivi della decisione
CHE:
1. Anzitutto, non può essere accolta la richiesta di trattazione della controversia in pubblica udienza avanzata dalla difesa della società nella memoria scritta. Invero, per questa Corte, in tema di giudizio di legittimità, la causa (nella specie tributaria) può essere trattata, anzichè in pubblica udienza, con il nuovo rito camerale “non partecipato”, ai sensi degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c., in presenza di particolari ragioni giustificative, purchè obiettive e razionali, tra cui rientra l’esigenza di evitare, nel periodo di emergenza epidemiologica da Covid-19, assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone, alla luce sia del D.L. n. 34 del 2020, art. 221, comma 4, conv., con modif., in L. n. 77 del 2020, – che consente, fino a cessata emergenza sanitaria, la trattazione scritta delle cause civili (cd. udienza cartolare) – sia delle misure organizzative adottate dal Primo presidente della Cassazione, con propri decreti, al fine di regolamentare l’accesso ai servizi (Cass., sez. 5, 20 novembre 2020, n. 26480).
Deve aggiungersi che l’udienza pubblica è riservata alla particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, mentre nella specie, i principi di diritto relativi al duplice oggetto della controversia sono stati enucleati da numerosi precedenti di legittimità.
Inoltre, il contraddittorio tra le parti si è sviluppato in modo ampio attraverso il deposito di conclusioni scritte da parte della Procura Generale ed il deposito di memoria scritta da parte della società.
1.1. Preliminarmente, si rileva che il ricorso proposto dalla Agenzia delle entrate deve essere qualificato come principale, mentre il ricorso della società Fremantlemedia Italia s.p.a. deve essere indicato come incidentale, in quanto notificato in data successiva al primo.
Infatti, il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso, fermo restando che tale modalità non è essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorchè proposto con atto a sè stante, in ricorso incidentale (Cass., sez. 1, 4 dicembre 2014, n. 25662; Cass., sez. L, 20 marzo 2015, n. 5695). Solo nel caso in cui i due ricorsi risultino essere stati notificati nella stessa data, l’individuazione del ricorso principale e di quello incidentale va effettuata con riferimento alle date di deposito dei ricorsi, sicchè è principale il ricorso depositato per primo, mentre è incidentale quello depositato per secondo.
1.2. Con il primo motivo di impugnazione principale l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″. Invero, per la ricorrente i costi di cui alla ripresa fiscale per Euro 335.191,64, sostenuti dalla contribuente controllata per l’attività svolta dalla controllante Fremantlemedia Group Limited attengono a costi infra-gruppo (cost. sharing agreement). La contribuente si è limitata ad esibire ai verificatori due fatture relative ai seguenti costi: un documento denominato “(OMISSIS); un contratto di servizi di gestione denominato “(OMISSIS)”, stipulato in data (OMISSIS), contenente l’indicazione dei servizi di supporto che la Grundy poteva richiedere alla Fremantlemedia Group Limited. Tuttavia, le spese sostenute dalle controllanti estere ed addebitate ad una filiale italiana possono essere dedotte solo se si siano tradotte in effettivi servizi resi.
L’onere della prova incombe sulla società che afferma di aver ricevuto il servizio, occorrendo anche che la controllata tragga dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima sia obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata. In realtà, la Commissione regionale ha ritenuto sussistente il diritto alla deduzione senza verificare se la contribuente avesse tratto dal servizio remunerato l’effettiva utilità e che quest’ultima fosse obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata. Nulla si dice in merito alla insufficiente documentazione fornita dalla contribuente al fine di individuare la tipologia delle prestazioni ricevute, i singoli momenti della loro effettuazione e le modalità di esecuzione.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “in subordine motivazione contraddittoria ed insufficiente su fatti decisivi e controversi del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5″, in quanto il giudice d’appello non ha adeguatamente valutato le circostanze di fatto addotti dall’Amministrazione in sede di appello, e segnatamente: il contratto di servizi denominato “(OMISSIS)”, riportato con un mero elenco delle prestazioni di supporto che Grundy poteva richiedere; il documento di supporto denominato “management fees-ulteriori dettagli”, da cui non emergono la tipologia delle prestazioni ricevute, i singoli momenti della loro effettuazione, le modalità di esecuzione e l’impiego di personale della casa madre; con riferimento ai costi relativi ai servizi di “Sothern Europe Directorate” e di “Market research”, si è rinvenuta soltanto documentazione costituita da e-mail esibite, oltre ad alcuni report relativi alle produzioni in programmazione nell’ambito del gruppo.
2.1. Il primo motivo è fondato, con assorbimento del secondo, articolato in via subordinata.
2.2. Va premesso che il fenomeno giuridico ed economico dei gruppi aziendali, operanti in collegamento nel territorio dello Stato, ha comportato il diffondersi di operazioni aziendali di tipo difensivo che, nate per la più conveniente allocazione dell’imponibile tra le società associate, sono spesso sfociate in vere e proprie operazioni elusive (Cass., n. 17955/2013), il che comporta una particolare rigore, in linea generale, nella valutazione delle operazioni intercompany che hanno destato anche l’attenzione dell’OCSE (Cass., n. 16480/2014).
Costituisce, infatti, principio giurisprudenziale consolidato quello per cui, in materia di costi c.d. infragruppo, ovvero laddove la società capofila di un gruppo di imprese decida di fornire servizi o curare direttamente le attività di interesse comune alle società del gruppo, ripartendone i costi tra di esse, al fine di coordinare le scelte operative delle aziende formalmente autonome e ridurre i costi di gestione, l’onere della prova in ordine all’esistenza ed all’inerenza dei costi sopportati incombe sulla società che affermi di aver ricevuto il servizio, occorrendo, affinchè il corrispettivo riconosciuto alla capogruppo sia detraibile, che la controllata tragga dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima sia obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata (Cass., 14 dicembre 2018, n. 32422; Cass., n. 23027/2015; Cass., n. 8808/2012; Cass., n. 11949/2012).
2.3. Da ciò consegue che la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali e sui servizi prestati dalla controllante (cost. sharing agreements) è subordinata all’effettività ed inerenza della spesa in ordine all’attività di impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che ne sia derivato a quest’ultima, non ritenendosi sufficiente l’esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti dalla controllante alle controllate e la fatturazione dei corrispettivi (Cass., sez. 5, 22 marzo 2021, n. 8001; Cass., 18 luglio 2014, n. 16480), richiedendosi, al contrario, la specifica allegazione di quegli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio (Cass., 16480/2014; Cass., 14016/1999; in relazione ai costi di regia cfr. Cass., 4 ottobre 2017, n. 23164).
In particolare, si tratta di verificare la sostanza aziendale ed economica dell’operazione intervenuta e di metterla a confronto con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e di valutarne la conformità a queste e l’utilità obiettiva.
Rileva, dunque, il principio dell’arms lenght, ossia quello di garantire che il prezzo praticato e le condizioni stabilite in transazioni tra soggetti collegati siano i medesimi previsti nei rapporti tra soggetti terzi indipendenti (cfr. OECD, Transfer Pricing Guidelines, 2017). L’Amministrazione finanziaria è tenuta a contestare non il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese di un gruppo, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale.
2.4. Spetta, dunque, alla contribuente, secondo i criteri generali, fornire tutti gli elementi atti a supportare la deducibilità dei costi sostenuti per ottenere i servizi prestati dalla controllante, tra i quali l’effettiva utilità dei costi stessi per la controllata, anche se a quei costi non corrispondono direttamente ricavi in senso stretto (Cass., 5 dicembre 2018, n. 31405).
2.5. Peraltro, è stata ritenuta legittima la prassi amministrativa (C.M. n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980) che, al di là della forfettizzazione percentuale dei costi di addebitati dalla capogruppo alle controllate, subordina la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali sui servizi prestati dalla controllante (cost sharing agreements) all’effettività e all’inerenza della spesa all’attività di impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che deriva a quest’ultima (Cass., 11 novembre 2015, n. 23027), senza che rilevino in proposito quelle esigenze di controllo della capogruppo, peculiari della sua funzione di shareholder (Cass., 18 luglio 2014, n. 16480).
2.6. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, e risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21184; Cass., 9466/2017).
2.7. Nella specie, il giudice d’appello ha affrontato la diversa questione della determinazione del prezzo nei contratti stipulati tra società del gruppo con sede in Stati diversi, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76 (ora art. 110, comma 7). Tra l’altro, con la valorizzazione della natura elusiva della norma, che avrebbe imposto all’Agenzia delle entrate di dimostrare l’assenza di valide ragioni economiche sottese al comportamento posto in essere, l’ottenimento di un risparmio di imposta altrimenti indebito e la volontà di aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario.
Per questa Corte, peraltro, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing, costituito dallo spostamento di imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti. La prova dell’Agenzia delle entrate non riguarda il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, mentre incombe sul contribuente, in base alle regole ordinarie di vicinanza alla prova ex art. 2697 c.c., ed in materia di deduzioni fiscali, l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valore di mercato da considerarsi normali alla stregua del D.P.R. sopra richiamato, art. 9, comma 3, (Cass., sez. 5, 18 giugno 2020, n. 11837; Corte Giustizia Ue, 8 ottobre 2020, nella causa C-558/19).
In realtà, il giudice di merito avrebbe dovuto indagare sulla documentazione prodotta dalla società in giudizio, al fine di dimostrare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla contribuente controllata in relazione al servizio reso dalla controllante; non essendo, peraltro, sufficiente l’esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti della controllante e la fatturazione dei corrispettivi.
Il giudice d’appello, invece, non ha affrontato in alcun modo la questione dei costi infra gruppo, non soffermandosi sull’esame della documentazione prodotta in giudizio dalla controllata (fatture, mail, memorandum, contratto).
Nè è sufficiente a dare la prova della effettività e della inerenza dei costi la circostanza che gli stessi siano minimi (circa Euro 300.000) per una società di produzioni cinematografiche e televisive con fatturato annuo di “decine di milioni di Euro”, come dedotto nel controricorso della contribuente.
3. Con un unico motivo di ricorso incidentale la società deduce la “violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 107 e 109, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la Commissione regionale avrebbe erroneamente ritenuto che la pendenza di un contenzioso in sede civile circa la debenza di un costo determinasse l’incertezza dello stesso ai fini Ires e Irap. L’Agenzia delle entrate aveva contestato l’indeducibilità di un costo pari ad Euro 881.341,68, solo perchè considerato “incerto”, in pendenza di un giudizio civile. Tale costo era stato, quindi, dedotto nell’anno 2004, anche se la transazione tra la Grundy e l’Aran (poi Aran-Endemol) era avvenuta nel 2006. Per la ricorrente, quindi, era corretta la deducibilità del costo già nell’anno 2004 sussistendo i requisiti della certezza del debito e della oggettiva determinabilità, già prima della transazione del 2006.
3.1. Il motivo è infondato.
3.2. Invero, è pacifico che la contribuente assicurato la transazione 2006, sicchè solo in tale data il debito è risultato certo e determinato.
Non v’è stata, allora, alcuna violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, in ordine al principio di competenza.
Tale disposizione prevede che “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”.
Con la menzione dei requisiti della “certezza” e della “determinabilità” il legislatore ha voluto escludere dalla formazione del reddito i componenti solo “stimati”, mentre deve tenersi conto solo degli elementi reddituali caratterizzati da un sufficiente grado di attendibilità. La certezza va intesa non in senso materiale, ma giuridico, con esclusione di componenti di redditi meramente presunti. Deve esistere un vincolo giuridico avente origine in un contratto, in un fatto illecito o in un provvedimento della pubblica amministrazione. La determinabilità attiene, invece, al quantum del componente di reddito, desumibile da elementi oggettivi, quindi con esclusione di quello basato su mere congetture soggettive o fondato su calcoli probabilistici.
Pertanto, inizialmente deve individuarsi l’esercizio di competenza civilistica, in base al principio di derivazione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83. Successivamente, si assiste ad un allontanamento dai principi civilistici, in quanto occorre verificare i requisiti di esistenza degli elementi reddituali e della loro oggettiva determinabilità, sicchè il legislatore fiscale ha inserito criteri più rigidi ed obiettivi di quelli civilistici per determinare l’imputazione temporale.
Per la Suprema Corte, in tema di transazione, è necessario che il giudice di merito valuti in concreto gli elementi dai quali desumere l’esistenza o la determinabilità in modo obiettivo degli elementi positivi o negativi del reddito, non potendo le parti decidere discrezionalmente l’esercizio di competenza in cui indicare tali elementi.
Le regole sulla imputazione temporale delle componenti di reddito sono inderogabili, sia per i contribuenti, ai quali è precluso ogni spostamento dei ricavi e delle spese da un periodo all’altro, sia per l’amministrazione finanziaria (Cass., sez. 5, 24 novembre 2020, n. 26650; Cass., 11 ottobre 2010, n. 25218; Cass., 18 giugno 2019, n. 12265). Tale inderogabilità non risponde ad una logica sanzionatoria, ma origina dalla circostanza che l’eventuale rilevazione in un periodo successivo del componente sarebbe priva di giustificazione in senso economico, in quanto l’evento di gestione si è già completamente esaurito in precedenza.
Si è, dunque, affermato che, in tema di imposte sui redditi d’impresa, dalla complessiva prescrizione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109), si desume che anche per le spese e gli altri componenti negativi, dei quali “non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare”, il legislatore considera come “esercizio di competenza” – l’individuazione del quale in concreto involge accertamenti di fatto di competenza esclusiva del giudice di merito, il cui apprezzamento può essere censurato in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio motivazionale – quello nel quale nasce e si forma il titolo giuridico che costituisce la fonte di ciascuna di tali voci, limitandosi soltanto a prevedere una deroga al principio della competenza, col consentire deducibilità di dette particolari spese e componenti nel diverso esercizio nel quale si raggiunge la certezza della loro esistenza ovvero la determinabilità, in modo obiettivo, del relativo ammontare. L’obbiettiva determinabilità sancita dalla legge non è collegata o collegabile alla manifestazione della volontà delle parti sul costo, essendo, altrimenti, ad esse demandata la scelta di stabilire a quale esercizio di competenza imputare la relativa componente del reddito d’impresa, sicchè il mancato accordo delle parti non significa necessariamente che il costo non sia, prima dell’accordo stesso, obbiettivamente determinabile (Cass., sez. 6-5, 24 ottobre 2012, n. 18237).
3.3. Questa Corte (Cass., sez. 5, 25 marzo 2015, n. 5976) ha, poi, distinto la nozione di costo inteso come “debito”, che presuppone i requisiti di “certezza e determinabilità” ex ante (come nel caso di assunzione di una obbligazione pecuniaria da eseguire in una certa data), che deve essere dedotto quale costo nell’anno di insorgenza della obbligazione per il principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 1 (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 1), dal costo inteso come “passività”, priva dei requisiti di certezza e determinabilità. In questa seconda accezione rientrano tre categorie di passività: quelle in cui l’obbligazione è certa nell’an ma è ex ante indeterminabile nel quantum; quelle in cui la stessa insorgenza della obbligazione appare incerta (in caso di contestazione giudiziale della esistenza o della validità del titolo); quelle in cui l’obbligazione assunta è subordinata, quanto all’efficacia, ad un evento futuro ed incerto non rimesso alla mera volontà del debitore (condizione sospensiva). Nelle ultime due ipotesi, qualificate “passività potenziali”, tra le quali deve collocarsi anche la fattispecie del credito/debito litigioso, non può trovare applicazione il principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, e la passività, ove anche suscettibile di stima previsionale, non deve nè può essere dedotta dal reddito per il solo fatto dell’inizio della lite. Pertanto, in caso di lite giudiziaria deve farsi riferimento all’anno di intervenuta transazione (in quel caso del 1999) e non ad anni precedenti, essendo la lite iniziata nel 1993. In presenza di accordo transattivo, dunque, gli importi derivanti dallo stesso devono essere imputati al periodo di sottoscrizione dello stesso, non assumendo rilevanza i relativi flussi finanziari (Cass., sez. 5, 28 aprile 2014, n. 9317),Infatti, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, impone che gli elementi reddituali positivi e negativi siano imputati al periodo di imposta in cui si verificano le vicende gestionali dalle quali scaturiscono, anche se non si sono ancora verificati i conseguenti movimenti finanziari attivi e passivi.
3.4. Inoltre, si è precisato che l’onere di provare il requisito della certezza e determinabilità dei componenti positivi del reddito, in un determinato esercizio sociale, incombe sull’amministrazione finanziaria, mentre per quelli negativi l’onere grava sul contribuente (Cass., sez. 5, 22 settembre 2006, n. 20521). Più recentemente si è affermato che incombe sull’amministrazione finanziaria, che assume erroneamente imputato un costo, dimostrare la determinatezza o determinabilità del medesimo; sul contribuente, invece, grava la prova che solo in un diverso anno i medesimi costi sono diventati certi e determinabili nell’ammontare (Cass., sez. 5, 12 dicembre 2018, n. 32102).
3.5. Nella fattispecie in esame, dunque, la transazione è intervenuta nel 2006, sicchè l’ufficio ha fornito la prova su di esso incombente (costi sostenuti nel 2006 in virtù della transazione stipulata in tale anno), mentre la contribuente non ha dato la prova della imputabilità dei costi già nel 2004.
La Commissione regionale ha evidenziato tutte le circostanze di fatto, in base alle quali ha ritenuto che fosse stato rispettato il principio di competenza. In particolare, il giudice d’appello ha messo in evidenza che, con la contestazione giudiziale, la Grundy ha contestato in radice la sussistenza dell’obbligazione nei confronti dell’Aran, “con un vero e proprio disconoscimento dell’obbligazione”; tanto che “la citazione in giudizio era motivata dalla circostanza che l’obbligazione contenuta nel contratto del 1997 era da considerare nulla, ai sensi dell’art. 1418 c.c., perchè completamente priva di causa”. In tal modo, la Commissione regionale ha evidenziato che era venuto a mancare il requisito della certezza previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109. Ha precisato anche che la deducibilità fiscale è consentita solo per gli accantonamenti tassativamente indicati dalle norme tributarie, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 107.
4. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto del ricorso principale, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che si adeguerà al seguente principio di diritto: “in tema di reddito di impresa, ai fini della deducibilità dei costi infra gruppo derivanti da corti cost sharing agreements, non è sufficiente l’esibizione da parte della contribuente controllata, cui incombe il relativo onere probatorio, del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti dalla controllante e la fatturazione dei corrispettivi, richiedendosi, al contrario, la specifica allegazione di quegli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio”.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso principale; dichiara assorbito il secondo; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 maggio 2021.
Conclusione
Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2021
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[1] Linee Guida OCSE in materia di prezzi di trasferimento, Capitolo VIII, sez. B.3, paragrafo 8.10.
[2] Linee Guida OCSE in materia di prezzi di trasferimento, Capitolo VII, sez. A, paragrafo 7.2.
[3] Circolare n. 32/1980, pag. 24.
[4] Linee Guida OCSE in materia di prezzi di trasferimento, capitolo VII, sez. B.1.1, paragrafo 7.6.