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I regimi speciali per “lavoratori impatriati” e “neo-residenti”, tra forme di competizione fiscale e vincoli europei in materia di concorrenza

Il tema della concorrenza fiscale fra Stati rappresenta una delle questioni centrali nel dibattito politico ed economico all’interno dell’Unione Europea. Un dibattito che, negli ultimi anni, si è particolarmente rinvigorito sulla spinta di una certa classe politica che, animata da pressioni populiste, ha inteso sostenere l’abbandono di posizioni multilateraliste in favore di un approccio più conservatore che guardasse ad una ritrovata sovranità nazionale, quale strumento per riaffermare la propria autonomia fiscale in un’era di globalizzazione economica caratterizzata dalla necessità di incrementare le entrate statali. In tale contesto, ancor di più che in passato, è compito e responsabilità dei legislatori nazionali adottare misure che non consentano forme di discriminazione basate sulla nazionalità, garantendo un’imposizione equa che non sia rappresentativa di una competizione fiscale dannosa.

1. Premessa

È ormai trascorso più di un anno dalla riforma del regime dei “lavoratori impatriati” operato con l’art. 5 del Decreto Crescita, che ha rafforzato il ventaglio delle misure fiscali (fra cui ricordiamo anche il regime per “neo-residenti”) offerte dal nostro ordinamento per accrescere l’appeal dell’Italia come “meta” di destinazione per i soggetti intenzionati a trasferire la residenza all’estero (come sportivi e artisti, in genere).

L’introduzione di queste misure ha tuttavia acceso un intenso dibattito tra coloro che ritengono che questi meccanismi possano rappresentare un’occasione di rilancio per la nostra economia [1] attirando ricchi stranieri con l’obiettivo di rilanciare gli investimenti e i consumi con l’arrivo di nuovi capitali, e quelli che, invece, sollevano dubbi di legittimità costituzionale per effetto di una possibile violazione dei principi di eguaglianza[2] e di capacità contributiva[3].

Interrogativi che si riverberano anche sul possibile impatto che le misure in questione possono avere sui principi che distinguono forme di competizione fiscale equa dalle pratiche di concorrenza fiscale dannosa, portando a considerare i potenziali effetti sui vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in materia di aiuti di Stato, laddove differenze d’imposizione fra Stati Membri potrebbero provocare distorsioni improprie sul mercato interno influenzando la localizzazione degli investimenti[4].

2. La concorrenza fiscale come fenomeno globale: dal “Codice di condotta” dell’UE al Progetto OCSE/BEPS

Con il termine di “concorrenza fiscale lecita” si indicano solitamente le politiche fiscali poste in atto dagli Stati per ridurre il carico fiscale di imprese e cittadini tramite un abbassamento generalizzato delle aliquote ordinarie d’imposizione, con il duplice obiettivo di attrarre attività economiche dall’esterno e fermare spinte emigratorie. Il tema, ovviamente, presenta aspetti particolarmente delicati, visto che la scelta delle politiche fiscali adottate da uno Stato rappresenta un elemento prioritario della sovranità nazionale, grazie alla quale i Governi centrali si assicurano le risorse necessarie al concorso della spesa pubblica per l’attuazione delle politiche sociali ed economiche del Paese (sanità, istruzione, previdenza sociale, difesa, etc).

Fin dalla creazione della Comunità Europea con la firma sul Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, vi è stato un forte interesse verso il fenomeno della competizione fiscale. La crescente competitività fra Stati membri e la radicalizzazione di una globalizzazione “selvaggia” hanno posto l’accento sulla necessità di concordare politiche che garantissero “un equilibrio fra la legittimità di regimi fiscali favorevoli – ad esempio nei settori della politica regionale, dell’ambiente o della R&S – e la necessità di evitare una concorrenza fiscale sleale e un’erosione globale delle entrate di bilancio degli Stati membri[5]. Orbene, già dalla fine del 1990 la Commissione Europea ebbe a insediare un comitato di esperti, noto come Comitato Ruding[6], per rispondere a tre quesiti, il primo dei quali chiedeva proprio di individuare se le differenze d’imposizione fra Stati membri provocassero importanti distorsioni nel mercato interno, in particolare per quanto riguarda le decisioni di investimento e la concorrenza[7]. Nel marzo 1992 il Comitato Ruding presentò il suo rapporto alla Commissione, affermando che le asimmetrie fiscali fra Paesi avrebbero potuto incentivare la riallocazione dei profitti fra Stati membri, escludendo tuttavia che la competizione fiscale potesse costituire un elemento di disturbo alla localizzazione degli investimenti quanto, piuttosto, una misura di stimolo nella ricerca di un’armonizzazione fiscale che il graduale completamento di un mercato unionale avrebbe potuto agevolare, favorendo in tal modo la nascita di nuove politiche fiscali basate su: (i) una riduzione delle aliquote nominali, (ii) un allargamento della base imponibile e (iii) l’introduzione di forme di tax relief che prevedessero anche crediti d’imposta sugli investimenti[8].

Il dibattito in sede europea si è sempre incentrato sulla contrapposizione tra concorrenza fiscale “dannosa” e “non dannosa”, dando origine, negli anni immediatamente successivi al lavoro del Comitato Ruding, ad uno nuovo piano[9] finalizzato a contrastare la concorrenza fiscale dannosa nell’area dell’imposizione diretta. È così che, con la Risoluzione del Consiglio del 1° dicembre 1997, venne adottato un “Codice di condotta (Tassazione delle imprese)[10] (anche il “Codice di condotta”[11]), al fine di individuare i principi diretti ad eliminare le misure che avrebbero potuto contenere la concorrenza fiscale dannosa nell’ambito della Comunità europea[12]. In particolare, il predetto documento ha avuto modo di chiarire che le misure fiscali potenzialmente dannose sono quelle che:

  • possono avere una sensibile incidenza sulla localizzazione di “attività imprenditoriali”[13], ponendosi in contrasto con l’art. 26 TFUE (“Il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei trattati”);
  • possono determinare un livello di imposizione effettivo nettamente inferiore (sia in termini di aliquota nominale che di imponibile) a quelli generalmente applicati nello Stato membro interessato, creando una discriminazione basata sulla nazionalità proibita dall’art. 18 TFUE (“Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”).

L’individuazione del carattere pregiudizievole di una misura fiscale potenzialmente dannosa deve pertanto considerare i seguenti elementi:

  • se i vantaggi fiscali sono concessi solo ai non residenti o nell’ambito di transazioni fatte con non-residenti;
  • se le agevolazioni sono circoscritte a favore dei soli non-residenti e fossero riconosciute sulla base di condizioni soggettive degli investitori (cd. ring-fencing);
  • se le agevolazioni sono concesse pur in difetto di un’effettiva attività economica nello Stato membro;
  • se le regole per la determinazione dell’utile nell’ambito di un’attività di un gruppo multinazionale divergono dai principi stabiliti a livello internazionale, con particolare riguardo all’OCSE;
  • se le misure fiscali difettano di trasparenza, per mancanza di collaborazione e scambio di informazioni tra autorità amministrative o per vincoli di segreto bancario, compresi in casi in cui l’agevolazione sia accordata al termine di atti amministrativi e non legislativi, come nel caso dei tax rulings.

Per altri versi, dal 1998 ad oggi la spinta delle istituzioni comunitarie nella lotta contro pratiche fiscali dannose è stata incentrata su misure di contrasto a politiche non rispondenti ad un criterio di sana concorrenza fiscale[14], proponendo tuttavia un’azione decisamente debole di fronte alle politiche fiscali nazionali che difatti in certi casi hanno continuato ad essere un polo attrattivo per investitori esteri. Ad ogni buon modo, la Commissione Europea nella seduta del 23 aprile 2013 ha creato una “Piattaforma per la buona governance fiscale” con il compito di monitorare i progressi compiuti dagli Stati membri nella lotta alla pianificazione fiscale aggressiva e l’inasprimento dei controlli sui paradisi fiscali, in modo da garantire un intervento effettivo e concreto per affrontare questi problemi in maniera coordinata a livello dell’UE. Inoltre, nella seduta del 14 maggio 2018, il Consiglio dell’ECOFIN ha adottato conclusioni in cui riconosce l’importanza e la necessità di intensificare a livello comunitario gli sforzi per combattere la frode e l’evasione fiscale transfrontaliera, attuando principi di buon governo nel settore fiscale (i.e. trasparenza fiscale, scambio di informazioni e leale concorrenza fiscale) che consentano di ridurre possibili distorsioni del mercato unico, prevenire l’erosione di base imponibile fra Stati membri e ripensare ad un sistema fiscale più favorevole all’occupazione.

L’OCSE, rispetto all’Unione Europea, ha assunto un atteggiamento più pragmatico e deciso, giungendo a sostenere che le caratteristiche dei sistemi fiscali dei paesi della residenza e della fonte potrebbero conseguire un effetto negativo sulla creazione di regimi fiscali preferenziali. Fin dal primo Rapporto “Harmful Tax Competition del 1998, ha inteso individuare specifiche misure di contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva e alle politiche nazionali che costituiscono pratiche fiscali dannose, attuate con lo sfruttamento di paradisi fiscali e di regimi fiscali preferenziali dannosi, destinati a[15]:

  • influenzare l’allocazione delle attività finanziarie e di altri servizi;
  • erodere le basi imponibili degli altri paesi;
  • alterare i commerci e i modelli d’investimento;
  • minare l’equità, la neutralità e la generale accettazione sociale dei sistemi fiscali.

L’OCSE individua inizialmente quattro “fattori chiave” per giungere all’identificazione dei regimi fiscali potenzialmente dannosi:

  1. assenza di tassazione o modesta imposizione effettiva del reddito[16];
  2. applicabilità della misura ai soli soggetti non-residenti (“Enterprises which benefit from the regime may be explicitly or implicitly prohibited from operating in the domestic market”) o specifica previsione di inapplicabilità ai soggetti residenti (“A regime may explicitly or implicitly exclude resident taxpayers from taking advantage of its benefits”) (cd. “ring-fencing of regimes)[17];
  3. mancanza di trasparenza nel regime fiscale, che impedisca ad uno Stato di adottare appropriate misure di contrasto[18];
  4. mancanza di uno scambio di informazioni effettivo fra autorità fiscali con riguardo ai regimi[19]

Malgrado ciò, chiarisce l’OCSE, la presenza di un regime fiscale dannoso poteva essere constatata qualora sussistesse, oltre ad uno dei “fattori chiave”, anche uno o più degli otto “elementi complementari” individuati in[20]:

  • una artificiale definizione della base imponibile;
  • la mancata adesione ai principi internazionali in materia di prezzi di trasferimento;
  • l’esenzione da imposizione dei redditi di fonte estera nel paese di residenza;
  • aliquote fiscali o basi imponibili che possono formare oggetto di negoziazione con l’autorità fiscale;
  • l’esistenza di disposizioni sul segreto (es. bancario);
  • l’accesso ad un ampio spettro di trattati contro la doppia imposizione;
  • l’utilizzo del regime fiscale preferenziale come strumento di riduzione delle imposte;
  • l’incoraggiamento all’attuazione di operazioni o strutture che sono poste in essere esclusivamente per ragioni fiscali.

Non tutti i regimi fiscali che possedevano le caratteristiche dei quattro “fattori chiave” e degli otto “elementi complementari” integravano automaticamente una pratica fiscale preferenziale: difatti, era importante valutare gli effetti economici della misura sulle politiche fiscali adottate dal paese che considerava l’utilizzo di quei regimi fiscali potenzialmente dannosi. Ciò poteva avvenire considerando se (i) il regime determinava lo spostamento di attività economiche da un paese al paese che lo ha istituito ovvero generava in modo significativo nuove attività in quest’ultimo, (ii) se la presenza e il livello di attività nel paese ospitante fosse commisurato all’entità dell’investimento e del reddito e (iii) se il regime fiscale preferenziale fosse la principale motivazione per la localizzazione di un’attività[21].

I lavori OCSE sono quindi proseguiti anche dopo il Rapporto del 1998. Con il Rapporto “Towards Global Tax Co-operation: Progress in Identifying and Eliminating Harmful Tax Practices[22], del 2000, il “Forum sulle Pratiche Fiscali Dannose” istituito nel 1998 ha relazionato i Ministri dei paesi partecipanti all’OCSE sui regimi fiscali preferenziali che potevano essere considerati come “potenzialmente” dannosi, individuando 47 regimi (suddivisi in 9 settori economici[23]) corrispondenti a 61 attività[24]. L’Italia veniva citata dal Rapporto con riguardo al regime fiscale del Centro di servizi finanziari ed assicurativi di Trieste (non operativo) e al regime del settore marittimo. Fino al 2004, l’attività del Forum si è sviluppata nell’aggiornare le liste dei regimi potenzialmente dannosi alla luce dei criteri previsti dal Rapporto del 1998, poi consolidati nel documento “Consolidated Application Note: Guidance in Applying the 1998 Report to Preferential Tax Regimes[25], con il quale si analizzava, per la prima volta, il ruolo delle holding e si fornivano note applicative finalizzate ad assistere i paesi nell’identificare i regimi fiscali preferenziali[26]. Nello stesso anno veniva pubblicato anche il Rapporto “Harmful Tax Practices: The 2004 Progress Report[27] il quale, prendendo le mosse dai principi per l’individuazione dei regimi fiscali dannosi consolidati con i lavori del 1998[28] e 2000[29], aggiornava di concerto con gli Stati membri OCSE la lista dei regimi fiscali potenzialmente dannosi tenendo conto delle note applicative contenute nel Report “Consolidated Application Note: Guidance in Applying the 1998 Report to Preferential Tax Regimes”. In particolare, si dava atto che[30] dei 47 regimi “potenzialmente” dannosi individuati dal rapporto del 2000, 18 erano stati nel frattempo aboliti dalle giurisdizioni di competenza, 14 erano stati già modificati o gli Stati si erano formalmente impegnati ad eliminare le pratiche fiscali dannosi dai regimi, mentre 13 non erano più ritenuti “potenzialmente” dannosi dopo accurate indagini. Per quanto riguarda l’Italia, si dava atto dell’intervenuta abolizione del regime fiscale del Centro di servizi finanziari ed assicurativi di Trieste[31], mentre veniva espunto dall’elenco delle misure “potenzialmente” dannose il regime fiscale del settore marittimo.

I successivi lavori (“The OECD’s Project on Harmful Tax Practices: 2006. Update on Progress in Member Countries[32]) non apportavano modifiche ai criteri per l’individuazione dei regimi fiscali potenzialmente dannosi, limitandosi ad aggiornare le liste con l’inclusione del “regime holding ’29” previgente in Lussemburgo[33] e valutando altri nuovi regimi fiscali preferenziali introdotti successivamente al 2000.

Ma è solo con l’implementazione del progetto BEPS che si è avuto un deciso scatto in avanti nell’azione di contrasto ai regimi fiscali preferenziali. Difatti, nel giugno 2013 il Comitato per gli affari fiscali dell’OCSE ha approvato il piano di azione anti-BEPS (contro l’erosione della base imponibile e lo spostamento artificioso dei profitti) in cui l’Azione 5 è devoluta al contrasto di pratiche fiscali dannose. I lavori, affidati al “Forum sulle Pratiche Fiscali Dannose”, hanno inteso procedere, nell’ambito del cd. “secondo pilastro” (o Pillar Two) del progetto OCSE, all’individuazione delle caratteristiche che consentono di distinguere i regimi preferenziali leciti da quelli dannosi e le contromisure da applicare a quest’ultimi. I nuovi “fattori chiave”, che sostituiscono quelli individuati nel 1998 con il Rapporto “Harmful Tax Competition. An emerging global issue”, sono:

  1. assenza di tassazione o modesta imposizione effettiva su capitali particolarmente mobili, come quelli finanziari e altre attività di servizi;
  2. regimi che si qualificano come “ring-fencing”;
  3. mancanza di trasparenza nel regime fiscale;
  4. mancanza di uno scambio di informazioni effettivo fra autorità fiscali;
  5. regimi che incoraggiano operazioni e meccanismi esclusivamente fondati su motivazioni di natura fiscale e privi di sostanza economica.

Se i fattori sub 1)-4) erano già considerati nel precedente rapporto, il fattore sub 5) risponde all’esigenza di prevedere dei meccanismi che colleghino la tassazione sui profitti alle reali attività che li hanno generati (cd. “substantial activity requirement”). Gli Stati membri OCSE hanno quindi concordato di convergere sul cd. “nexus approach” che, pur se inizialmente sviluppato con riferimento ai regimi IP[34], può essere applicato anche ad altri regimi preferenziali “dannosi”[35]. Nondimeno, anche in questo caso per giungere a definire un regime fiscale come “dannoso” è necessaria una combinazione dei “fattori chiave” (il punto di partenza deve essere sempre rappresentato dall’assenza di tassazione o modesta imposizione effettiva) con uno dei cinque “elementi complementari”, così individuati:

  • artificiale definizione della base imponibile;
  • mancata adesione ai principi internazionali in materia di prezzi di trasferimento;
  • esenzione da imposizione dei redditi di fonte estera nel paese di residenza;
  • aliquote fiscali o basi imponibili che possono formare oggetto di negoziazione con l’autorità fiscale;
  • esistenza di disposizioni sul segreto (es. bancario).

Proseguendo nei suoi lavori in materia, l’OCSE pubblica periodicamente i Rapporti “Harmful Tax Practices ‑ Progress Report on Preferential Regimes[36], proponendo un elenco dei regimi dannosi vigenti sulla base dei  “fattori chiave” e degli “elementi complementari” previsti dall’Azione 5 del progetto BEPS (come sopra citati): l’Italia, dal canto suo, è stata segnalata nel Rapporto per la temporanea estensione fino al 31 dicembre 2016 del regime Patent Box sui marchi d’impresa, oltre la data limite prevista dall’OCSE nel 1° luglio 2016. Ad oggi, pertanto, non vi sono regimi fiscali italiani che per l’OCSE si qualifichino come “harmful tax practices”.

E’ quindi evidente, per concludere, come l’azione dell’OCSE abbiamo mantenuto una dimensione più globale rispetto a quella dell’Unione Europea: la prima, infatti, si rivolge ai paesi membri dell’Organizzazione ma anche a quei paesi che non ne fanno parte, focalizzandosi su redditi e attività altamente mobili, come investimenti, attività finanziarie e altri servizi, dedicando alla lotta contro pratiche dannose anche azioni parallele che coinvolgono lo scambio di informazioni e il contrasto ai Paradisi Fiscali; la seconda, invece, si è impegnata con l’azione periodica del gruppo di lavoro nominato dal Consiglio UE all’applicazione dei principi previsti dal Codice di condotta alle pratiche di concorrenza fiscale adottate dagli Stati membri in relazione alle sole “attività imprenditoriali” e ai regimi fiscali speciali riservati ai lavoratori subordinati, proponendo come già detto un’azione decisamente debole rispetto alle reali necessità.

3. Sulla compatibilità dei regimi fiscali opzionali con il diritto europeo, tra forme di discriminazione diretta e indiretta

Venendo ai regimi dei “lavoratori impatriati” e “neo-residenti”, non può non notarsi come questi si muovano su presupposti differenti da quelli tipici di una discriminazione diretta vietata secondo i canoni del TFUE e della Corte di Giustizia comunitaria[37], che può sussistere solo nel caso in cui un’agevolazione fiscale sia riservata ai residenti dello Stato membro così da introdurre una disparità legata alla cittadinanza[38]. Difatti, subordinare il trattamento fiscale nazionale ad una condizione di residenza potrebbe costituire una forma di discriminazione “dissimulata” sulla base della nazionalità della persona fisica, dal momento che – pur qualificandosi “ufficialmente” su altri criteri (residenza fiscale dell’individuo, per l’appunto) – la norma finirà in realtà per penalizzare con maggior vigore soggetti aventi la nazionalità di altri Stati membri. Al più, nel caso di specie si potrebbe sostenere l’esistenza di una discriminazione inversa a danno dei cittadini italiani, cioè di coloro che, già residenti in Italia, non potrebbero soddisfare il requisito soggettivo comune a tutti i regimi fiscali (residenza estera negli anni antecedenti al trasferimento in Italia): quest’ultima forma di discriminazione non contrasta tuttavia con i principi europei in materia di tassazione[39], dato che il TFUE tutela unicamente gli operatori degli altri Stati membri e non quelli del paese che ha istituito la misura fiscale. Il rimedio nei confronti di tale discriminazione inversa sarebbe dato invece da un ricorso alla giurisprudenza italiana per violazione del principio di eguaglianza sancito dalla nostra carta costituzionale[40].

Nel senso di non ritenere queste misure di favore contrarie allo spirito di leale cooperazione fiscale tra gli Stati membri, si è espressa anche la Commissione Europea[41] che, alla domanda se questa ritenga che il regime dei “neo-residenti” costituisca una pratica fiscale dannosa posta in essere come forma di eluzione fiscale (NdA: la stessa considerazione si potrebbe estendere per analogia al regime dei “lavoratori impatriati”, muovendosi sui medesimi presupposti generali), ha risposto che “In considerazione dei notevoli progressi conseguiti negli ultimi anni sulla base delle iniziative della Commissione in materia di scambio di informazioni fiscali, non vi è un rischio evidente di elusione fiscale dovuto alla misura in questione. Inoltre, tenendo conto del fatto che gli Stati membri sono liberi di fissare le aliquote d’imposta nazionali, è rispettato il principio di leale cooperazione”.

Posto che tali regimi non sembrano integrare una forma di competizione fiscale dannosa, potrebbe altresì dirsi non violata neanche la disciplina in materia di aiuti di Stato, nel momento in cui l’art. 107 del TFUE si rivolge ad “imprese” soggette al diritto dell’Unione Europea e non ha carattere selettivo nei confronti di certe attività o produzioni (il comma 1 legge come segue: “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”). Pertanto, non sono oggetto di valutazione ai fini dell’art. 107 del TFUE le misure attuate da Stati membri e relative suddivisioni amministrative che comportino agevolazioni fiscali dirette a persone fisiche (per lo meno, non nell’esercizio di un’attività d’impresa, come difatti avviene nel caso dei regimi fiscali introdotti in Italia[42]).

In ogni caso, nel 2019 il Commissario Europeo alla Concorrenza ha avuto modo di chiarire[43] che le misure introdotte dall’Italia con il Decreto Crescita non sembrano costituire una forma di aiuto di Stato, dal momento che il regime degli “impatriati” si applica alla generalità delle persone fisiche che trasferiscono la residenza fiscale in Italia e a prescindere dal settore occupazionale. Inoltre, la disposizione prevede una forma di detassazione (70%) superiore a quella destinata agli sportivi professionisti (50%), di talché la norma non si configurerebbe come norma lesiva della concorrenza, anche per il fatto che in assenza di armonizzazione fiscale in ambito comunitario e pur con l’intenzione di garantire una tassazione equa all’interno dell’UE, le imposte sul reddito personale rientrano nella competenza degli Stati membri, che sono liberi di definire i propri regimi come ritengono opportuno purché rispettino i principi fondamentali dei trattati.

4. Sull’aiuto di Stato “indiretto” a favore dei datori di lavoro dei soggetti “impatriati”

D’altro verso, potrebbe obiettarsi se possa costituire aiuto di Stato “indiretto” una misura fiscale come quella prevista dal regime dei “lavoratori impatriati” che, finalizzata ad incentivare il trasferimento in Italia di persone fisiche agevolando direttamente la detassazione del reddito di lavoro dipendente (e assimilato), finisca per costituire un indiretto vantaggio competitivo (sotto forma di beneficio economico derivante dal minor costo del lavoro sostenuto) per le imprese residenti in Italia rispetto a quelle localizzate in altri Stati membri[44]. Come potrebbe essere nel caso di società calcistiche di Serie A che, con il restyling al regime degli “impatriati”, hanno avuto a disposizione “un’arma” in più per convincere i top-players ad accettare un trasferimento del nostro campionato[45] potendo godere di una detassazione del 50% del costo del lavoro, oppure nel caso di imprese (ancor meglio se localizzate in una regione del Mezzogiorno) che possono beneficiare di un taglio del costo del lavoro fino al 90% nel caso di assunzione di risorse dall’estero.

Innanzitutto, la definizione di vantaggio “indiretto” in presenza di un aiuto di Stato ex art. 107 del TFUE (quindi nell’ambito del regime d’impresa) è fornita dalla Comunicazione della Commissione Europea 2016/C 262/01, che definisce[46] tale quella situazione in cui “il vantaggio può essere conferito a imprese diverse da quelle alle quali le risorse statali sono direttamente trasferite”, dal momento che “una misura può anche costituire un vantaggio diretto per l’impresa beneficiaria e un vantaggio indiretto per altre imprese, ad esempio, quelle che operano su livelli successivi di attività”. Tuttavia, “questi vantaggi dovrebbero essere distinti dai semplici effetti economici secondari inerenti a quasi tutte le misure di aiuto di Stato (ad esempio, l’aumento della produzione). Si verifica un vantaggio indiretto se la misura è concepita in modo da trasferire i suoi effetti secondari a imprese o gruppi di imprese identificabili”. Sul punto di una possibile corrispondenza fra vantaggio “diretto” e “indiretto”, la Corte di Giustizia Europea ha già sostenuto, con la sentenza C-403/10 (“Mediaset SpA vs Commissione Europea”), che una misura di sostegno destinata ai singoli consumatori potrebbe costituire un aiuto indiretto per gli operatori economici che ne traggono beneficio.

Se dunque, nel caso degli sportivi professionisti “impatriati”, non può negarsi quanto meno l’esistenza di un effetto economico secondario in capo alle società calcistiche, dovuto al fatto che con l’acquisto del top player può realizzarsi, ad esempio, un incremento del fatturato da attività di merchandising, diverso sarebbe essere il caso di operatori economici appartenenti ad altri settori per i quali potrebbero sussistere le condizioni per una contestazione di vantaggio “indiretto”, senza escludere che anche le società sportive stesse potrebbero incorrere nella medesima situazione.

Su questo punto si segnalano precedenti interventi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, fra cui la causa “Regno dei Paesi Bassi contro Commissione delle Comunità Europee” (C-382/99) avente ad oggetto la presunta incompatibilità con la disciplina sugli aiuti di Stato di certe sovvenzioni concesse dai Paesi Bassi a favore dei distributori di benzina olandesi situati lungo il confine con la Germania. Secondo i fatti contestati, il governo olandese aveva concesso questi contributi per compensare gli incrementi tariffari delle accise sugli olii leggeri decisi dal governo tedesco che avrebbero avuto ripercussioni negative per i gestori olandesi presenti in tali aree di confine. Sicché, le sovvenzioni avrebbero potuto rappresentare un aiuto di Stato “indiretto” per le compagnie petrolifere con le quali i distributori di benzina erano vincolati, dal momento che, in base alla cd. “clausola di gestione dei prezzi” che vincolava le parti, avrebbero dovuto essere le compagnie a farsi carico degli eventuali maggiori oneri delle accise al fine di garantire un livello di fatturato minimo ai distributori associati. I giudici hanno concluso che gli aiuti versati ai distributori di benzina comportavano conseguenze economiche per le compagnie interessate, poiché avevano comunque l’effetto indiretto di esentare tali compagnie dal loro obbligo di farsi carico di certi costi, costituendo in tal modo un aiuto a favore delle stesse. Secondo la Corte, quindi, “sono considerati in particolare come aiuti gli interventi che, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, ne hanno la stessa natura e producono identici effetti”.

Inoltre, come sostenuto dal Tribunale di primo grado dell’Unione Europea nella causa T424/05 “Italia contro Commissione Europea” del 4 marzo 2009, “occorre ricordare che l’art. 87 CE [N.d.A.: ora art. 107 TFUE] vieta gli aiuti concessi dagli Stati ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma, senza distinguere a seconda che i vantaggi relativi agli aiuti siano concessi in modo diretto o indiretto. La giurisprudenza ha così ammesso che un vantaggio conferito direttamente a talune persone fisiche o giuridiche che non sono necessariamente imprese può costituire un vantaggio indiretto e, di conseguenza, un aiuto di Stato per altre persone fisiche o giuridiche che sono imprese”. Tuttavia, tale vantaggio “può costituire un aiuto solo se, presentando una certa selettività, è tale da favorire talune imprese o talune produzioni”, sicché un provvedimento statale che avvantaggi indistintamente l’insieme delle imprese ubicate sul territorio nazionale non può costituire un aiuto di Stato (cfr. causa C-143/99).

Pertanto, il fatto che (i) il regime dei “lavoratori impatriati” non si configura come una misura selettiva in quanto potenzialmente va a beneficio di qualsiasi persona che si trasferisca in Italia nel rispetto delle condizioni previste dalla normativa e (ii) viene ammesso al beneficio, oltre al lavoratore che si trasferisce in Italia per essere assunto da un’impresa italiana, anche il lavoratore che si trasferisce in Italia per prestare la propria attività presso una stabile organizzazione di un’impresa estera, sembrerebbe porre la norma al riparo da eventuali contestazioni in materia di aiuti di Stato[47].


[1] Così il capo della segreteria tecnica del MEF, Fabrizio Pagani, in un’intervista al quotidiano “La Repubblica” dell’8 marzo 2017.

[2] Art.3 della Costituzione Italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (…)”.

[3] Art. 53 della Costituzione Italiana: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

[4] In ogni caso, una concorrenza fiscale “ordinata” potrebbe contribuire alla riduzione delle aliquote nominali considerando anche un allargamento della base imponibile. Su questo tema si era già espresso nel 1992 il Comitato Ruding, un gruppo di esperti nominati dalla Commissione Europea per rispondere a tre quesiti, il primo dei quali chiedeva proprio di individuare se le differenze d’imposizione fra Stati membri provocassero importanti distorsioni nel mercato interno.

[5] Conclusioni del Consiglio CE del 23.11.1992 sugli orientamenti comunitari in materia di imposizione fiscale diretta delle imprese nel quadro del perfezionamento del mercato interno.

[6] Dal nome del suo Presidente Onno Ruding.

[7] Con gli altri due quesiti si chiedeva se 1) le eventuali distorsioni sul mercato unico potessero essere eliminate dal libero gioco delle forze di mercato e dalla concorrenza fiscale fra Stati membri oppure fosse necessario un intervento a livello comunitario e 2) se, qualora si ritenesse necessario un intervento a livello comunitario, quali misure specifiche occorrerebbe prendere. V. pag. 11 del Report disponibile al seguente indirizzo: https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/0044caf0-58ff-4be6-bc06-be2af6610870/language-fr.

[8] Report Ruding, p. 22.

[9] Sviluppato da un gruppo di lavoro poi ribattezzato “gruppo Primarolo”, dal nome del Presidente del gruppo di lavoro (Mrs. Dawn Primarolo).

[10] Come previsto dalla Risoluzione sul Codice di condotta (cfr. punto H), il Consiglio dell’ECOFIN (Economic and financial affairs council) ha istituito al suo interno un gruppo di lavoro (si vedano le conclusioni del Consiglio del 9.3.1998 riguardanti l’istituzione del gruppo “Codice di condotta (tassazione delle imprese)”, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:31998Y0401(01)&from=ET) incaricato di valutare le misure fiscali che possano rientrare nel campo di applicazione del Codice di condotta (cfr. punti F-G) e di controllare la comunicazione delle informazioni relative a tali misure (cfr. punto E). Il gruppo sul Codice di condotta ha riporta periodicamente al Consiglio[10], partendo dal Report del 23 novembre 1999, i risultati dell’analisi volta ad individuare le misure fiscali dannose, monitorando costantemente le procedure di standstill e di roll-back. I Report sono accessibili al seguente indirizzo https://www.consilium.europa.eu/register/en/content/out?DOC_TITLE=business+taxation&DOC_SUBTYPE=%22REPORT%22&i=COCGRTTC&ROWSPP=25&ORDERBY=DOC_DATE+DESC&DOC_LANCD=EN&typ=SET&NRROWS=500&RESULTSET=1&TARGET_YEAR=2020.

[11] Il documento si inserisce nell’ambito di un più ampio progetto sviluppato in seno alla Commissione Europea, contenuto nel cd. “Pacchetto Monti”. Si veda la comunicazione “Verso il coordinamento fiscale nell’Unione europea. Un pacchetto di misure volte a contrastare la concorrenza fiscale dannosa” del 1.10.1997.

[12] Il Codice di condotta si pone come strumento di soft law nel diritto comunitario, dal momento che, nell’area dell’imposizione diretta, la potestà legislativa spetta agli Stati membri: ha quindi natura di impegno politico non vincolante, sebbene preveda procedure di valutazione e controllo, la cui promozione è rimessa alla volontà delle parti con l’obiettivo di prevenire le distorsioni economiche e l’erosione di basi imponibili all’interno del mercato unionale.

[13] Definite come tutte le attività svolte in seno ad un gruppo di società.

[14] Ricordiamo fra gli altri il pacchetto antielusione (cd. “ATAD1” e “ATAD2”), il piano d’azione sulla tassazione delle imprese, il piano di rilancio della base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (cd. “CCCTB”) e le iniziative a supporto della tassazione dell’economia digitale.

[15] In questi termini si esprime l’OCSE nel Rapporto “Harmful Tax Competition. An emerging global issue”, 1998, par. 4. Per approfondimenti si veda anche Fondazione Luca Pacioli, La lotta dell’OCSE alla concorrenza fiscale dannosa dopo il rapporto del 2001: lo stato dell’arte e i possibili sviluppi, Studio n. 1, Documento n. 4 del 28 gennaio 2002.

[16] Questa condizione è obbligatoria affinché un regime possa definirsi potenzialmente dannoso In particolare, secondo l’OCSE un’aliquota effettiva di tassazione pari a zero, o molto contenuta, può anche dipendere dal fatto che l’aliquota nominale sia particolarmente bassa o per l’effetto delle regole di determinazione della base imponibile. Si veda il par. 61 del Rapporto “Harmful Tax Competition. An emerging global issue”.

[17] Sostiene l’OCSE, al par. 62 del Rapporto “Harmful Tax Competition. An emerging global issue”, che vi sono buone ragioni di preoccupazione da parte della comunità internazionale nel caso di regimi che siano totalmente o parzialmente isolati dall’economia nazionale. Difatti, tali regimi sono strutturati per produrre effetti negativi solamente sul gettito fiscale dei paesi esteri, dando il vantaggio ai soggetti che ne beneficiano di godere delle infrastrutture del paese ospitante senza realmente contribuire al concorso della spesa pubblica per il loro sostenimento.

[18] Secondo l’OCSE, come riportato al par. 63 del Rapporto “Harmful Tax Competition. An emerging global issue”, un regime fiscale “trasparente” deve: 1) prevedere chiaramente le condizioni di accesso al regime, in modo tale che queste possano essere fatte valere di fronte alle autorità; 2) includere un elenco dei soggetti che ne hanno beneficiato, da rendere disponibile alle autorità fiscali dei paesi interessati. Le cause della mancata trasparenza fiscale sono individuate in: 1) accordi con autorità amministrative troppo favorevoli (rulings), che consentono a certi settori di operare di operare in condizioni fiscali più favorevoli rispetto ad altri settori; 2) speciali pratiche amministrative che si pongono in contrasto con le procedure previste dalla legislazione nazionale; 3) qualora si creino volutamente delle disparità con la norma fiscale domestica, per fornire alcune categorie di contribuenti di un vantaggio competitivo.

[19] La mancanza di uno scambio di informazioni viene individuato dall’OCSE, al par. 64 del Rapporto “Harmful Tax Competition. An emerging global issue”, come uno dei “fattori chiave” per l’individuazione del carattere dannoso di un regime fiscale preferenziale, come nel caso del segreto bancario o qualora la mancata condivisione delle informazioni sia dovuta da pratiche o procedure amministrative poste in essere dal paese.

[20] Cfr. par. 68 del Rapporto “Harmful Tax Competition. An emerging global issue”.

[21] Cfr. par. 80 e ss. del Rapporto “Harmful Tax Competition. An emerging global issue”.

[22] Disponibile all’indirizzo https://www.oecd.org/tax/transparency/about-the-global-forum/publications/towards-global-tax-cooperation-progress.pdf

[23] I settori economici sono: 1) insurance, 2) financing and leasing, 3) fund managers, 4) banking, 5) headquarters regimes, 6) distribution centre regimes, 7) service centre regimes, 8) shipping, 9) miscellaneous activities.

[24] Il Report chiarisce che i regimi fiscali delle società holding non sono stati esaminati, pur potendo costituire una forma di competizione fiscale dannosa, in ragione della loro complessità, rimandando a successivi lavori ogni conclusione in merito a tali regimi.

[25] Disponibile all’indirizzo http://www.oecd.org/ctp/harmful/30901132.pdf.

[26] Vedi Capitolo VI).

[27] Disponibile all’indirizzo http://www.oecd.org/ctp/harmful/oecd-harmful-tax-practices-project-2004-progress-report.pdf.

[28] Nei quali chiedeva agli stati membri OCSE di non introdurre nuove misure fiscali o di estendere quelle esistenti allorché queste avessero carattere di pratiche fiscali dannose.

[29] Con i quali l’OCSE si riservava di svolgere un’ulteriore selezione per identificare i regimi fiscali “effettivamente” dannosi da quelli solo “potenzialmente” dannosi, in modo da poter assistere gli stati membri a modificarli adeguatamente.

[30] Vedi par. 12 del Rapporto OCSE.

[31] Lo speciale regime fiscale consentiva alle imprese del settore bancario e assicurativo operanti nei paesi dell’Europa centrale ed orientale di fruire di una riduzione dell’imposta sulle persone giuridiche e di talune imposte indirette. Si annota, a latere, che anche la Commissione Europea con la comunicazione IP/02/1851 dell’11.12.2002 aveva sostenuto che il regime fiscale contrastasse con la disciplina in materia di aiuti di Stato, richiedendo pertanto una sua eliminazione.

[32] Disponibile all’indirizzo https://www.oecd.org/ctp/harmful/37446434.pdf

[33] Fino alla definitiva abrogazione del regime da parte delle autorità del Granducato nel 2006.

[34]Si veda anche il par. 26 e ss. del Rapporto sull’Azione 5 “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account Transparency and Substance”, disponibile all’indirizzo https://read.oecd-ilibrary.org/taxation/countering-harmful-tax-practices-more-effectively-taking-into-account-transparency-and-substance-action-5-2015-final-report_9789264241190-en#page25.

[35] Così il par. 70 e ss. del Rapporto sull’Azione 5 “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account Transparency and Substance”.

[36] Gli ultimi aggiornamenti (2017 e 2018) sono disponibili, rispettivamente, all’indirizzo https://www.oecd-ilibrary.org/docserver/9789264283954-en.pdf?expires=1587484985&id=id&accname=guest&checksum=C8D47DB07A372D27983989C067ADB9F6http://www.oecd.org/tax/beps/harmful-tax-practices-2018-progress-report-on-preferential-regimes-9789264311480-en.htm.

[37] A tal fine il leading case è rappresentato dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea del 14 febbraio 1995, n. C-279/93 (noto come “caso Schumacker”), laddove al par. 28 i giudici annotano che “Una normativa nazionale di questo tipo, la quale prevede una distinzione basata sul criterio della residenza, nel senso che nega ai non residenti talune agevolazioni in materia fiscale concesse invece ai residenti nel territorio nazionale, rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri. Infatti, i non residenti sono il più delle volte cittadini non nazionali”.

[38] Come ha avuto modo di sostenere P. Laroma Jezzi in Restrizioni discriminatorie e non discriminatorie, Integrazione negativa e fiscalità diretta. L’impatto delle libertà fondamentali sui sistemi tributari dell’Unione Europea, Saggi di diritto tributario Pacini Editore, 9, 2012, “quando il diritto tributario domestico (ivi compreso quello di fonte internazionale) riserva al ‘non-residente’ un trattamento diverso dal ‘residente’ e, dunque, non assicura al primo il ‘trattamento nazionale’ applicato al secondo tale distinzione non determina mai una restrizione alle libertà fondamentali posto che esse, come appena detto, mirano a garantire la parità di trattamento indipendentemente dalla nazionalità del contribuente, e non già indipendentemente dalla sua residenza”.

[39] Sul punto si vedano anche, inter alia, R. Schiavolin, Sulla costituzionalità dell’imposta sostitutiva italiana per i cd. “neo-residenti”, NF 10/2018, p. 440, SUPSI; G. Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (c.d. flat tax per neo-residenti), in Riv. dir. trib., 2018, I, p. 84 ss.

[40] Si vedano al riguardo le sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione n. 249 del 16 giugno 1995 e n. 443 del 30 dicembre 1997, su questioni riguardanti rispettivamente i lettori italiani di lingua straniera e i produttori italiani di prodotti alimentari nelle quali la Corte si è pronunciata contro discriminazioni a danno di soggetti italiani nei confronti di soggetti di altri Stati dell’Unione Europea.

[41] Interrogazione parlamentare del 20 marzo 2017 (n. E-001841-17), su iniziativa di un gruppo di deputati appartenenti al gruppo Socialisti e Democratici (S&D).

[42] Si potrebbe al più rilevare che l’art. 16, comma 1-bis del Decreto Internazionalizzazione “si applica anche ai redditi d’impresa prodotti dai soggetti identificati dal comma 1 o dal comma 2 che avviano un’attività d’impresa in Italia, a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019”.

[43] Nel corso di un’interrogazione parlamentare dell’11 luglio 2019 (n. E-002224/2019), su iniziativa di un gruppo di deputati appartenenti al gruppo Verdi Europei – Alleanza Libera Europa (Verts/ALE).

[44] Pur nel rispetto delle condizioni e dei limiti stabiliti dalle norme europee sugli aiuti de minimi (cd. “de minimis”) con il Regolamento UE N. 1407/2013 della Commissione, 18 dicembre 2013”), che all’art. 3 stabilisce una soglia dimensionale pari ad Eur 200.000 nell’arco di 3 anni entro cui l’importo complessivo dell’aiuto concesso ad un’impresa (intesa questa come “qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento”) non si considera lesivo o dannoso ai fini della concorrenza per il libero mercato, derogando così all’obbligo di notifica di cui all’art. 108, par. 3 del TFUE.

[45] Per dipingere la situazione si rileggano le dichiarazioni riportate dal presidente della Liga spagnola, Javier Tebas, al quotidiano El Pais del 13 luglio 2019 (El ‘calcio’ es un paraíso fiscal), che commentando la norma italiana ha dichiarato una mancanza di competitività per gli altri Paesi: “In Italia le cose vengono fatte diversamente e questo le renderà più competitive. I giocatori pagano 10 volte meno tasse che in Spagna”. Ricordiamo che la stessa Spagna, però, ha goduto negli anni passati di un regime di favore simile a quello Italiano (v. la cd. Ley Beckham, introdotta nel 2005 e soppressa nel 2010).

[46] Vedi par. 115 e 116.

[47] Dall’altro lato, si segnala la posizione della Commissione Europea in una dichiarazione del 15 giugno 2017 di Pierre Moscovici che, in risposta ad un’interrogazione parlamentare del 20 marzo 2017 (n. E.001843-17) presentata dal gruppo European United Left/Nordic Green Left (GUE/NGL), ha avuto modo di affermare che: “Le misure fiscali dannose nell’UE sono disciplinate dalle disposizioni del Codice di condotta in materia di tassazione delle imprese (il Codice). Il Codice riguarda le misure di tassazione delle imprese che incidono sull’ubicazione delle attività imprenditoriali nel territorio dell’UE. La misura nazionale cui si fa riferimento sembra riguardare l’imposizione delle persone fisiche che non rientra prima facie nell’ambito di applicazione del Codice”. Inoltre, “una possibile inclusione di tali misure nell’ambito di applicazione del Codice è stata discussa in un gruppo di lavoro del Consiglio in linea con le conclusioni del Consiglio «Economia e finanza» del 7 dicembre 2010 (documento 17380/10 FISC 149). Il gruppo di lavoro ha ritenuto che la tassazione del reddito delle persone fisiche non rientri, di norma, nell’ambito di applicazione del Codice ma che taluni aspetti di tale tassazione possono essere presi in considerazione se la loro interazione con altre misure fiscali produce effetti negativi per la tassazione delle imprese. Il regime nazionale cui è fatto riferimento nell’interrogazione sembra non produrre detti effetti e non rientrerebbe dunque nell’ambito di applicazione del Codice”.

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