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La deducibilità delle spese sostenute dalle case di moda per la cessione gratuita di abiti griffati a personaggi noti

I costi sostenuti per la produzione di capi d’abbigliamento destinati alla cessione gratuita a Vip si qualificano come spese di rappresentanza e non come spese di pubblicità, mancando una diretta aspettativa di ritorno commerciale che le qualificherebbe viceversa come spese di pubblicità. Il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità risiede quindi nella diversità, anche strategica, degli obiettivi perseguiti.

Uno degli aspetti principali riguardanti la fiscalità delle case di moda attiene alla deducibilità dei costi sostenuti per la cessione gratuita di abiti firmati a VIP. Le imprese operanti in questo settore devono infatti sostenere spese per garantire la visibilità dei prodotti e la riconoscibilità del marchio, in modo tale da promuovere l’immagine della maison nei confronti della platea di potenziali acquirenti. A tal fine, con la cessione gratuita a personaggi noti di capi d’abbigliamento e accessori della casa di moda si concretizza una strategia di marketing e di comunicazione che, nell’era degli influencers e dei social networks, vuole giungere ad una forte identificazione di un personaggio pubblico – caratterizzato quindi da una riconosciuta notorietà – con i prodotti della casa di moda. Tali cessioni avvengono di norma al di fuori di qualunque patto contrattuale fra le parti e obbligo giuridico che imponga ai VIP di indossare i prodotti in pubbliche occasioni.

Tanto premesso, il tema che si vuole affrontare riguarda la disciplina fiscale delle spese sostenute in relazione a tali cessioni. L’argomento ha difatti presentato nel tempo elementi di incertezza che hanno contribuito ad alimentare un ampio contenzioso fra contribuenti e Amministrazione finanziaria, in ragione della differente qualificazione dei costi sostenuti fra spese di pubblicità, da un lato, e spese di rappresentanza, dall’altro lato. Le prime, disciplinate dalle norme generali in materia di determinazione del reddito d’imposta e integralmente deducibili con detraibilità piena dell’Iva assolta sugli acquisti; le seconde, commisurate alle regole di deducibilità parziale prevista dall’art. 108, comma 2 del TUIR che parametrano gli oneri fiscalmente rilevanti al volume di ricavi e proventi della gestione caratteristica dell’impresa, con Iva assolta sugli acquisti non detraibile ai sensi dell’art. 19-bis1, comma 1, lett. h) del dPR IVA.

Se, dunque, non vi sono dubbi sulla disciplina fiscale connessa alla tipologia di spesa sostenuta da una società di moda, più complessa è la questione riguardante la qualificazione di dette spese nell’ambito della corretta categoria di appartenenza. Difatti, la linea di demarcazione tra le due fattispecie non è perfettamente intellegibile, dal momento che la riconducibilità dei costi sostenuti deve avvenire in ragione della differente diversità strategica che contraddistingue gli obiettivi che si vogliono raggiungere con il sostenimento della spesa. Detto in altri termini, bisogna valutare se le spese costituiscono un’iniziativa finalizzata ad accrescere il prestigio e l’immagine della casa di moda incrementandone le possibilità di sviluppo, ovvero se sono rivolte alla pubblicizzazione di un prodotto da cui consegue una ragionevole aspettativa di ritorno commerciale in termini di vendite da parte della maison.

Recentemente, la Corte di Cassazione è intervenuta sulla questione (sent. n. 13100 del 30 giugno 2020) nell’ambito di un contenzioso riguardante delle riprese a tassazione su spese ritenute dall’Amministrazione finanziaria parzialmente o integralmente indeducibili dal reddito d’impresa di una società della moda italiana. Fra i motivi in contestazione vi era infatti anche la deducibilità delle spese per omaggi di capi firmati a personaggi noti, senza che vi fosse uno specifico obbligo giuridico di indossarli nel corso di manifestazioni pubbliche.

I Giudici, che hanno già avuto modo di esprimere orientamenti giurisprudenziali su questo tema in precedenti pronunce (cfr. sent. n. 10636 del 4 maggio 2018; n. 29690 del 30 novembre 2017; n. 10111 del 21 aprile 2017: n. 6738 del 15 marzo 2017; n. 3341 dell’8 febbraio 2017; n. 28690 del 30 novembre 2017; n. 5195 del 16 marzo 2016; n. 3087 del 17 febbraio 2016; n. 21977 del 28 ottobre 2015; n. 3433 del 5 marzo 2012), hanno confermato il costante orientamento della Corte ritenendo che la cessione gratuita a Vip di capi d’abbigliamento griffati, effettuata dalla casa di moda al di fuori di qualunque patto contrattuale e obbligo giuridico di indossarli in situazioni di pubblica visibilità, resterebbe estraneo alla qualificazione giuridica delle spese di pubblicità mancando ogni aspettativa diretta di un ritorno commerciale da siffatta cessione.

Dunque, il citato carattere discretivo per individuare ciò che costituisce spese di pubblicità e spese di rappresentanza “va individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale”.

Oltretutto, l’assenza di un dovere di controprestazione – in ragione della gratuità della cessione dei capi d’abbigliamenti – farebbe ritenere che il carattere essenziale della spesa sostenuta non sia da ricercare nell’obbligo di pubblicizzare un prodotto con l’obiettivo diretto di accrescere le vendite quanto, piuttosto, in una generale finalità di promozione degli affari dell’impresa ovvero nell’interesse di instaurare e mantenere rapporti con il personaggio noto.

In definitiva, il carattere gratuito dell’operazione e la funzione tipicamente promozionale dei costi sostenuti riconducono gli oneri sostenuti dall’impresa nella produzione di abiti ed accessori griffati oggetto di cessione gratuita a VIP nell’ambito delle spese di rappresentanza assoggettate alla disciplina fiscale di cui all’art 108, comma 2 del TUIR, quindi ai limiti di deducibilità commisurati all’ammontare dei ricavi e proventi della gestione caratteristica dell’impresa: 1,5% dei ricavi fino ad Eur 10 Mio, 0,6% dei ricavi per la parte eccedente Eur 10 Mio e fino a Eur 50 Mio e 0,4% dei ricavi oltre Eur 50 Mio.

D’altro lato, sulle medesime posizioni si attesta la prassi amministrativa (cfr. Circolare n. 3/E del 18 gennaio 2006) quando afferma che “caratteristica fondamentale delle spese di rappresentanza è proprio la loro gratuità, ossia la mancanza di corrispettivo o di un obbligo di dare o facere a carico dei soggetti che beneficiano dei beni o servizi cui le spese si riferiscono”. Dunque, il carattere essenziale delle spese di rappresentanza è costituito dalla mancanza di un nesso sinallagmatico tra il bene o servizio erogato ed il corrispettivo o la controprestazione da parte del soggetto percettore della gratuità, sicché, in ragione della gratuità dell’operazione, non possa essere provato che la cessione gratuita sia riconducibile ad una diretta aspettativa di ritorno commerciale.

Ricordiamo, infine, che nel caso delle spese di rappresentanza ai sensi dell’art. 108 del TUIR, l’indetraibilità dell’Iva assolta sugli acquisti prescinde dal fatto che la deducibilità del costo sia, ai fini delle imposte dirette, consentita o meno secondo i limiti del plafond di cui al comma 2.

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