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La sottoscrizione di accordi per l’addebito di spese di intermediazione sportiva qualifica l’esistenza di un fringe benefit e non riduce la soggettività passiva del calciatore nei confronti dell’Erario

In presenza di un contratto siglato fra società calcistica e agente sportivo per regolare il pagamento di spese per prestazioni di intermediazione sportiva rese da quest’ultimo a favore del proprio assistito, non si può ritenere che il calciatore non sia a conoscenza del possibile vantaggio economico a suo beneficio derivante dalla sottoscrizione dell’accordo fra le parti, per il mero fatto che lo stesso ne risulti giuridicamente estraneo. Non vengono pertanto meno i vincoli all’obbligazione tributaria gravanti sull’intero reddito di lavoro corrisposto, anche sotto forma di fringe benefits.

Lo stabilisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11337/2022, intervenendo su una controversia riguardante l’accertamento, per il periodo d’imposta 2005, di un maggior reddito imponibile a titolo di fringe benefit corrispondente all’importo delle spese sostenute da una società calcistica verso il procuratore sportivo del calciatore, con richiesta di maggiori imposte per circa Eur 1,2 mil. oltre sanzioni e interessi. L’atto impositivo veniva emesso all’esito di una verifica effettuata nei confronti della società, durante la quale emergeva la deduzione di costi per “prestazioni di intermediazione sportiva realizzate dalla [società dei procuratori] a beneficio del calciatore”.  Così da (1) accertare in capo al calciatore l’emersione di un maggior reddito imponibile di natura retributiva e (2) notificare alla società sportiva un separato atto impositivo, che veniva chiuso in adesione con il riconoscimento del 50% dei costi dedotti.

Ricordiamo infatti che (come più dettagliatamente analizzato in questo post), nel caso sub(1), può essere contestata al calciatore l’imponibilità della quota corrispondente al reddito di lavoro in natura, che comporta la contestazione di infedele dichiarazione ai fini Irpef e una sanzione amministrativa dal 90% al 180% del maggior reddito accertato (art. 1, comma 2 del d.lgs n. 471/1997) nonché una sanzione penale da 2 a 5 anni di reclusione se, congiuntamente, l’imposta evasa è superiore ad Eur 100.000 e l’ammontare degli elementi attivi sottratti a tassazione è  superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione dei redditi e, comunque, non inferiore ad Eur 2.000.000 (art. 4, comma 1 del d.lgs n. 74/2000). Nel caso sub(2), invece, possono essere contestate alla società una pluralità di violazioni, partendo dalla contestazione di indeducibilità dei compensi corrisposti al procuratore sportivo e di infedele dichiarazione ai fini Ires e Irap, per giungere all’indetraibilità dell’Iva esposta in fattura dall’agente per “difetto di inerenza” e alla presentazione di infedele dichiarazione Iva, nonché all’omessa effettuazione delle ritenute fiscali sulla quota di fringe benefit corrisposta al lavoratore dipendente e alla contestazione di dichiarazione infedele del modello 770. 

Il calciatore adiva presso la competente Commissione tributaria provinciale di Como, ma i giudici di primo grado rigettavano il ricorso introduttivo con sentenza n. 104/02/2010. Diversamente, l’appello presentato trovava accoglimento presso la Commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza n. 736/13/2014. Veniva infatti esclusa ogni ulteriore obbligazione tributaria dello stesso nei confronti dell’Erario “avendo la società calcistica nelle more definito la propria posizione fiscale mediante accertamento con adesione”, mentre “[C]on riferimento alle sanzioni applicate per la omessa dichiarazione, ne escluse l’applicabilità, ritenendo carente l’elemento soggettivo per essere il calciatore estraneo all’accordo tra (…) e (…), e pertanto per ignorare quanto corrisposto dalla società al suo procuratore”.

Queste conclusioni -molto discutibili e affatto convincenti- sono state respinte dai giudici della Corte, e il ricorso cassato con rinvio alla Commissione tributaria regionale in diversa composizione. Secondo la Cassazione, è infatti irragionevole ritenere di estinguere l’obbligazione principale del contribuente con il mero versamento dell’imposta da parte della società sportiva e all’esito di una procedura di accertamento con adesione che riconosceva natura retributiva (fringe benefit) limitatamente al 50% dei compensi corrisposti al procuratore sportivo. Senza quindi ricondurre, al medesimo rapporto giuridico, anche la residuale componente retributiva sulla quale pendeva ancora un’obbligazione tributaria in capo al calciatore/contribuente, che gli imponeva di riportare nella propria dichiarazione dei redditi la corrispondente quota-parte di reddito di lavoro dipendente, anche se il (vecchio) modello CUD (quindi, la certificazione unica dei redditi corrisposti dal datore di lavoro nell’anno precedente) non presentava alcuna indicazione della retribuzione relativa all’importo dei compensi erogati sotto forma di fringe benefits. Ebbene, al di là degli obblighi del sostituito, non poteva neanche essere avocata un’estraneità “formale” del calciatore all’accordo fra società sportiva e procuratore che potesse tutelarlo da una forma di responsabilità indiretta connessa alla conoscenza del vantaggio economico di cui lo stesso avrebbe beneficiato una volta che le parti avessero formalizzato l’accordo per l’addebito delle spese di intermediazione sportiva, poiché il soggetto passivo d’imposta risponde dell’omessa indicazione del reddito anche per colpa a meno che la carenza dell’elemento psicologico (e quindi la “conoscenza”, sia dell’accordo che del conseguente beneficio) non venga provata nei fatti (“le argomentazioni per le quali il giudice d’appello sembra voler escludere la sanzionabilità della condotta omissiva del contribuente sarebbero racchiuse nella possibile ignoranza da parte del (…) dell’importo corrisposto dalla società al suo procuratore. Tutto ciò sulla base della circostanza che all’accordo sul pagamento, il calciatore era giuridicamente estraneo”).

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