Le vicende legate alla tassazione dei calciatori professionisti hanno sempre suscitato un grande interesse nell’opinione pubblica, per i molteplici risvolti economici che muovono l’industria del calcio e per la notorietà dei suoi protagonisti. Un interesse che, recentemente, ha trovato nuova linfa con l’avvio di alcune inchieste giudiziarie tese ad indagare sul complesso meccanismo di riconoscimento delle commissioni agli agenti sportivi per la compravendita di calciatori professionisti.
Sotto il profilo tributario, l’ultimo decennio è stato caratterizzato dal tema dei pagamenti agli agenti sportivi e dalla riqualificazione fiscale di detti compensi sotto forma di fringe benefits dei calciatori. Questo filone investigativo è nato al termine di una serie di controlli della Guardia di Finanza a carico di varie società di calcio, nel corso delle quali era emerso un consistente numero di fatture emesse da procuratori sportivi a carico dei club, per attività di assistenza professionale e consulenza contrattuale rese su operazioni con suoi tesserati. Le contestazioni del fisco erano fondate sulla specifica tesi secondo cui, in considerazione della peculiarità del rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra società sportiva e calciatore, i pagamenti a favore degli agenti (ingaggiati formalmente dalla società) avvenissero nell’interesse esclusivo – se non prevalente – del calciatore piuttosto che del club sportivo.
In tal modo si accertava l’esistenza di una componente retributiva indiretta – un compenso in natura, da tassare ex art. 51, comma 1 del testo unico sui redditi (anche “Tuir”) con assoggettamento a ritenuta d’acconto del datore di lavoro ex art. 23 del dpR n. 600/73 – rispetto a quella ordinariamente percepita dal calciatore per lo svolgimento dell’attività sportiva, dal momento che la società si sarebbe accollata il pagamento del compenso dovuto al procuratore da parte del giocatore. Ritenendo, così, fittizie le fatture emesse dagli agenti sportivi alle società di calcio, in quanto rappresentative dei compensi che i giocatori avrebbero dovuto versare ai procuratori.
L’art. 49, comma 1 del TUIR individua, infatti, come redditi di lavoro dipendente “(…) quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro”. Il successivo art. 51, comma 1 del testo unico fissa un principio di attrazione nell’ambito del reddito di lavoro autonomo di tutte le somme e valori percepiti dal lavoratore nel periodo d’imposta in relazione al medesimo rapporto, anche se sotto forma di erogazioni liberali (cd. principio di onnicomprensività). Sono, in sintesi, redditi in natura tutti gli elementi aggiuntivi della retribuzione ordinaria del lavoratore forniti al dipendente in forme diverse dalle somme in denaro, che concorrono alla formazione del reddito imponibile dello stesso nel caso in cui le spese siano sostenute nell’interesse prevalente del lavoratore (cfr. Cass. civ. Sez. V, 17 marzo 2020, n. 7377).
La questione afferente alla disciplina tributaria dei compensi in esame ha avuto una genesi normativa particolare nell’ultimo decennio. Con l’intervento operato dalla legge di bilancio 2014, veniva infatti introdotta una presunzione assoluta (ex art. 51, comma 4-bis del Tuir) in forza della quale, con effetti retroattivi dal 1° gennaio 2013, una parte del corrispettivo pagato dalle società per attività professionali rese dai procuratori sportivi, stimata forfettariamente nel 15% dei compensi (al netto delle somme eventualmente versate dal giocatore al procuratore per l’attività di assistenza nella medesima trattativa), doveva essere riqualificata come fringe benefit in capo allo sportivo.
Gli elementi di criticità della disposizione recata con il nuovo comma 4-bis erano evidenti. In primo luogo, vi era un rischio di doppio fringe benefit in capo al giocatore se entrambe le società coinvolte nel trasferimento (cedente e cessionaria) avessero operato con l’intermediazione di un proprio consulente. In secondo luogo, anche quando l’agente del calciatore avesse prestato una propria autonoma e reale attività di consulenza a favore della società per la quale erano tesserati i suoi assistiti, questi ultimi avrebbero comunque vista l’attribuzione del 15% di un compenso che non rappresentava in alcun modo una prestazione svolta a loro beneficio/vantaggio (di cui il calciatore era totalmente all’oscuro) e, da ultimo, la norma falliva in toto (e fallisce tutt’ora!) di considerare il calciatore come un asset d’impresa. Il tentativo del fisco è sempre stato quello di considerare come vantaggi accessori, tassabili in capo allo sportivo, le somme pagate dalle società ai procuratori sportivi ingaggiati per trattative aventi a riguardo il trasferimento di un giocatore o il rinnovo di contratto. Tuttavia, il calciatore rappresenta per una società sportiva un asset ben diverso da un qualunque altro dipendente subordinato: il costo sostenuto dal datore di lavoro, per l’acquisto del diritto alle prestazioni sportive del calciatore, viene infatti iscritto in bilancio fra le immobilizzazioni immateriali dello stato patrimoniale se sussistono i requisiti di utilità pluriennale in termini di flusso di benefici economici perduranti nel tempo, ed è ammortizzato in quote costanti per l’intera durata del contratto che vincola il calciatore alla società. Così anche la Raccomandazione contabile n. 1 della Federazione Italiana Giuoco Calcio, per cui “I diritti pluriennali alle prestazioni dei calciatori costituiscono una posta patrimoniale attiva di natura immateriale a carattere pluriennale, poiché il relativo valore corrisponde ad una situazione di vantaggio della società che detiene il diritto, rispetto alle altre società, destinata a durare nel tempo”. Ora, è pacifico che il giocatore rappresenti lo “strumento” per il conseguimento dei ricavi di una società sportiva (secondo la Risoluzione n. 213 del 19 dicembre 2001, infatti, “il relativo costo [del calciatore] e’ un’immobilizzazione, in quanto non esaurisce la propria utilita’ in un solo esercizio, ma manifesta i suoi benefici economici lungo un arco temporale di piu’ esercizi“), per cui qualunque onere sostenuto dal club è necessariamente finalizzato a migliorare il valore del “bene immateriale strumentale d’impresa” e non dovrebbe essere assimilato ad un normale benefit riconosciuto dal datore di lavoro ad esclusivo interesse dal dipendente (es. la concessione di un’autovettura aziendale o la stipula di un’assicurazione sulla vita).
Ciò posto, la novella si caratterizzava per la sua efficacia come regola di sistema, anche in deroga alle disposizioni previste dal previgente “Regolamento agenti di calciatori” (2010) che prevedeva il divieto di doppio mandato, vale a dire l’impossibilità per un procuratore sportivo di operare nell’interesse di più parti (società e calciatore) per la medesima operazione. A tal fine, si imponeva all’agente di sottoscrivere il modulo federale rosso (per la rappresentanza della società) o blu (per la rappresentanza del calciatore). Successivamente, con decorrenza 1° gennaio 2016, la norma sul fringe benefit sportivo veniva abrogata, senza peraltro aver cura di istituire un regime transitorio considerato che il “Regolamento per i servizi di procuratore sportivo” (2015) aveva previsto il superamento del divieto di doppio mandato. Sicché, l’intero impianto accertativo del fisco veniva ricondotto (similarmente a quanto avveniva per le verifiche fiscali effettuate fino al 31 dicembre 2012) alle generali disposizioni in materia di fringe benefits contenute nell’art. 51 del Tuir, in forza della quale ogni somma che il lavoratore riceva e che sia in qualunque modo riconducibile al rapporto di lavoro subordinato deve concorrere alla formazione del reddito imponibile del dipendente.
Le contestazioni mosse dall’amministrazione finanziaria portavano (e portano, tutt’ora) quindi ad accertare: (i.) in capo ai calciatori – l’omessa dichiarazione di redditi imponibili ai fini Irpef (più addizionali regionali e comunali), (ii.) in capo alle società sportive – l’indeducibilità ai fini Ires e Irap dei costi sostenuti verso l’agente sportivo e l’indetraibilità dell’Iva esposta in fattura per difetto di inerenza, nonché l’omessa effettuazione di ritenute a titolo di acconto sulla parte di retribuzione in natura corrisposta al calciatore/dipendente e l’infedele dichiarazione del modello 770, (iii.) in capo agli agenti sportivi – il reato di emissione di fatture soggettivamente inesistenti, dal momento che la fattura emessa recherebbe un committente (la società sportiva) differente da quello reale (lo sportivo).
Gli effetti sotto un profilo penal-tributario per le parti coinvolte in tali verifiche sono così riassumibili:
- l’imponibilità della quota corrispondente al fringe benefit in capo al calciatore, che comporta una contestazione di infedele dichiarazione ai fini Irpef, prevede una sanzione amministrativa dal 90% al 180% del maggior reddito accertato (art. 1, comma 2 del d.lgs n. 471/1997) nonché una sanzione penale da 2 a 5 anni di reclusione se, congiuntamente, l’imposta evasa è superiore ad Eur 100.000 e l’ammontare degli elementi attivi sottratti a tassazione è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione dei redditi e, comunque, non inferiore ad Eur 2.000.000 (art. 4, comma 1 del d.lgs n. 74/2000);
- con riguardo alla società sportiva, l’indeducibilità dei compensi corrisposti ai procuratori comporta l’accertamento di infedele dichiarazione ai fini Ires e Irap con sanzione amministrativa e penale nello stesso ordine di quanto sopra esposto (art. 1, comma 2 del d.lgs n. 471/1997 e art. 4, comma 1 del d.lgs n. 74/2000). A ciò si deve aggiungere l’indetraibilità dell’Iva esposta in fattura dall’agente sportivo per “difetto di inerenza”, con accertamento di omesso versamento dell’imposta (sanzione amministrativa del 30% per ogni importo non versato – ex art. 13 del d.lgs n. 471/1997 e sanzione penale con reclusione da 6 mesi a 2 anni, se l’ammontare non versato è superiore ad Eur 250.000 – ex art. 10-ter del d.lgs n. 74/2000), la presentazione di infedele dichiarazione Iva (sanzione amministrativa dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o della differenza di credito utilizzato – ex art. 5 comma 4 del d.lgs n. 471/1997 e sanzione penale – ex art. 4, comma 1 del d.lgs n. 74/2000), l’omessa effettuazione delle ritenute fiscali sulla quota di fringe benefit al lavoratore dipendente (sanzione amministrativa pari al 20% dell’ammontare non trattenuto – ex art. 14 del d.lgs n. 471/1997) e sanzione penale con reclusione da 6 mesi a 2 anni se il mancato versamento è superiore ad Eur 150.000 – ex art. 10-bis del d.lgs n. 74/2000), nonché la contestazione di dichiarazione infedele del modello 770 (utilizzato dai sostituti d’imposta per comunicare, in via telematica, all’Agenzia delle Entrate le ritenute operate su redditi di lavoro dipendente e assimilati);
- infine, nei confronti dell’agente sportivo cadrebbe la contestazione di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, con sanzione penale (art 8 del d.lgs. n. 74/2000) che prevede la reclusione da 4 a 8 anni se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture, per ciascun periodo d’imposta, è superiore ad Eur 100.000, o la minore reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni se l’importo è inferiore ad Eur 100.000.
All’interno del filone appena descritto si inserisce la recente sentenza pronunciata dalla CTR Lombardia n. 4219 del 22 novembre 2021, all’esito dell’appello presentato dalla contribuente (società calcistica di Serie A) dopo che i giudici di prime cure (sentenza n. 225/2019) avevano accolgo i rilievi formulati dall’Agenzia delle entrate con avviso di accertamento per l’anno 2013 (notificato al termine di una verifica condotta dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Bergamo), nel quale si contestavano: (i.) l’omessa effettuazione di ritenute a titolo d’acconto ex art. 23 del dPR n. 600/73 sui compensi pagati ai procuratori sportivi e riqualificati come fringe benefits in capo ai calciatori, (ii.) l’indetraibilità dell’Iva esposta in fattura e (iii.) l’indeducibilità dei compensi pagati ai fini Irap, giungendo a ritenere le fatture emesse dai procuratori sportivi nei confronti del club come soggettivamente inesistenti. Parimenti, venivano irrogate sanzioni amministrative per infedele dichiarazione del sostituto d’imposta (modello 770) e per mancata esecuzione di ritenute alla fonte. In modo particolare, i giudici bergamaschi avevano sostenuto la tesi formulata dalla Guardia di Finanza nel processo verbale di constatazione, secondo cui “il compenso pagato dalla [società sportiva] al procuratore sportivo in occasione dei trasferimenti dei tre calciatori dovevano considerarsi come una sorta di compenso accessorio ai singoli calciatori, in quanto erano proprio questi che in realtà avrebbero dovuto provvedere a pagare il procuratore che avrebbe agito nel loro interesse”.
Parte ricorrente eccepiva quindi l’esistenza del mandato di rappresentanza con il procuratore sportivo, come documentato dalla compilazione del modulo federale rosso – secondo le norme vigenti all’epoca dei fatti in contestazione – e, in via subordinata, la sussistenza di obiettive condizioni di incertezza normativa che imponevano la disapplicazione delle sanzioni amministrative (ex art. 8 del d. lgs. n. 546/1992).
L’organo giudicante ha ritenuto che la tesi sostenuta dall’Agenzia delle entrate fosse in realtà priva di fondamenti adeguati a supportare le contestazioni ascritte a parte ricorrente, giustificando le proprie convinzioni sul mancato superamento della prova rappresentata dalla compilazione del modulo federale rosso che, salvo atti contrari, formalizzava un rapporto di consulenza svolto dal procuratore sportivo a favore della società calcistica e, in ogni caso, visto che i fatti si collocavano nell’arco temporale successivo all’introduzione della norma ex art. 51, comma 4-bis del Tuir (con divieto di doppio mandato), provavano al massimo un’attività a favore di entrambe le parti in causa (club e calciatore – quindi al massimo una violazione di competenza delle autorità federali calcistiche). Le conclusioni raggiunte dai giudici lombardi sono state alquanto risolute, non andando oltre una constatazione di insussistenza del quadro probatorio rappresentato dall’amministrazione finanziaria, affermando che “per smentire la validità di tali mandati [NdA: fra società e procuratore sportivo] si richiamano non già elementi documentali obiettivamente riscontrabili e valutabili bensì al più supposizioni e valutazioni espresse in termini di astratta probabilità dalla Guardia di Finanza”. Giocoforza, per sostenere la propria tesi, l’Ufficio – facendo seguito alle direttive interne emanate con prot. n. 137433/2009, secondo cui “al fine di dimostrare la natura di fringe benefit è necessario costruire un impianto probatorio rigoroso” – deve provare in atti la divergenza fra la realtà apparente dell’operazione e la sua espressione documentale, fornendo prove che assumano la consistenza di elementi indiziari volti a sostenere le proprie argomentazioni. Invece, gli elementi probatori forniti, valutati sia singolarmente che complessivamente, si appalesavano inadeguati a dimostrare la reale sussistenza di una indennità aggiuntiva in favore del calciatore (così anche CTP Lecce n. 1061/2018 e n. 2826/2018), mancando adeguata prova sulla “simulazione” del rapporto fra club e agente sportivo da cui desumere in realtà l’esistenza di un accordo a tre (società, agente e calciatore) per il pagamento del compenso.
Le argomentazione espresse non sono certamente nuove per la giurisprudenza tributaria. La CTR lombarda si era già espressa su tali principi con la sentenza n. 3880/2016, in un procedimento a carico di un calciatore per omessa dichiarazione di un maggior reddito ai fini Irpef, dove l’Ufficio faceva leva su una scrittura privata tra la società sportiva e l’agente in cui si parlava di compensi per “attività di assistenza in genere diretta e futura al calciatore”. I giudici, in quell’occasione, avevano avuto modo di chiarire che “non sussiste alcuna prova documentale che l’attività svolta da parte di [procuratore] a favore di [società sportiva] sia avvenuta anche nell’interesse del ricorrente”, per cui “la presunzione che ha portato all’emissione da parte dell’Agenzia delle Entrate dell’avviso di accertamento impugnato appare sfornita di fondamento”. Parimenti, la CTP Massa Carrara nel procedimento n. 145/2012 concludeva che “dalla documentazione in atti risulta che la Società [del procuratore] ha regolarmente ricevuto dal ricorrente il compenso pattuito in relazione agli ingaggi relativi agli anni 2005 e 2006, circostanza non contestata dall’Ufficio accertatore e provata documentalmente dal ricorrente a mezzo degli estratti conto bancari della Società [del procuratore]. Ciò dimostra che il ricorrente Sig. Z. non ha beneficiato del fringe benefit, così come sostenuto dall’Ufficio, avendo lo stesso provveduto direttamente al pagamento del proprio agente. L’Ufficio accertatore, inoltre, non ha prodotto alcuna prova documentale atta a dimostrare l’avvenuto pagamento da parte della [società sportiva] dell’Agente del ricorrente”. In tal modo si era anche pronunciata anche la CTP di Genova (sentenze n. 1300/2017 e n. 58/2018), che aveva respinto la tesi dell’Ufficio “provata in atti (modulo rosso) la stipula del mandato dalla [società sportiva] al [procuratore], nel proprio interesse ed il relativo costo sostenuto per le prestazioni ricevute dal procuratore è sicuramente inerente e come tale deducibile IRAP. Mentre, per altro in assenza di valido mandato (modulo blu) non è provato se il giocatore abbia fruito del servizio di rappresentanza, né in quale misura”.
Non può tuttavia sottacersi che l’evoluzione normativa che ha accompagnato la riforma della professione dell’agente sportivo negli ultimi anni (si veda lo schema allegato) – al quale viene oggi permesso di curare, all’occorrenza, sia gli interessi del calciatore che della società sportiva senza alcun vincolo di esclusività (a differenza della norma presente all’epoca dei fatti commentati) – ha comportato l’emergere di nuovi elementi di criticità sui pagamenti delle società sportive ai procuratori. Occorre infatti valutare se le attività rese da questi ultimi rivestano un interesse prevalente per il calciatore oppure per le società sportive. Nel primo caso, le somme corrisposte costituiscono reddito aggiuntivo di lavoro dipendente imponibile in capo al calciatore, dal momento che con il pagamento del compenso “in sostituzione” del giocatore la società sportiva garantirebbe a quest’ultimo un beneficio economico ulteriore rispetto alla retribuzione ordinaria; diversamente, l’accertamento di un interesse prevalente in capo al datore di lavoro non costituirà fringe benefit ma dovrà essere provato in atti, documentando l’esistenza di un rapporto contrattuale diretto tra la società di calcio e il procuratore sportivo.
Non è certamente agevole individuare dove, in questi casi, si collochi l’interesse prevalente. Può comunque giungere in soccorso l’orientamento espresso dalla prassi ministeriale con la Circolare n. 37/E del 20 dicembre 2013, avente ad oggetto le “Questioni fiscali di interesse delle società sportive, emerse nel corso delle riunioni del Tavolo tecnico tra Agenzia delle Entrate e rappresentanti della Federazione Italiana Giuoco Calcio e delle Leghe Nazionali Professionisti”. Al quesito 1.7 – dove si chiedeva di conoscere il regime fiscale nel caso di beni assegnati ai calciatori, quali capi di abbigliamento o autovetture per raggiungere il centro di allenamento – l’Agenzia ha posto la linea di demarcazione sull’esistenza di un obbligo contrattuale della società sportive verso gli sponsors per l’utilizzo dei beni in occasione di pubblici eventi. Sussistendo tale obbligo – pena l’addebito di una penale in caso di inadempimento – dovrà ritenersi prevalente l’interesse del club; altrimenti, ritenendo possibile un interesse del calciatore all’utilizzo del bene concesso dalla società, o anche nel caso in cui lo stesso bene venga lasciato come liberalità dallo sponsor al termine del contratto, potrà configurarsi un’ipotesi di accessorietà per cui la società potrà essere chiamata a rispondere delle ritenute su redditi di lavoro dipendente per compensi riconducibili alla sfera professionale.
In termini più generali, sull’imponibilità dei fringe benefits in capo al lavoratore, sono intervenute anche la Circolare n. 326/E del 23 dicembre 1997, la Circolare n. 55/E del 4 marzo 1999 e la Risoluzione n. 77/E 12 agosto 2019. Quest’ultimo documento, in particolare, ha il pregio di ripercorrere in sintesi i principi richiamati dai precedenti documenti di prassi, permettendo di trarre delle conclusioni generali con riguardo all’eventuale concorso a tassazione di beni e servizi erogati dal datore di lavoro (quindi, anche nel caso di compensi corrisposti dalle società di calcio agli agenti sportivi). Cosicché, non costituiscono fringe benefits: (i.) le somme e i valori corrisposti al dipendente (NdA: il calciatore) che non rappresentano un arricchimento per quest’ultimo, come nel caso di quelle erogate a semplice titolo di reintegrazione patrimoniale (rimborso spese), (ii.) le erogazioni effettuate per un esclusivo o prevalente interesse del datore di lavoro e (iii.) le somme e i valori connessi ad obbligazioni contrattuali assunti fra il datore di lavoro e gli sponsor. Tutti gli altri casi potrebbero invece essere qualificati come un accollo del pagamento che il giocatore avrebbe dovuto corrispondere direttamente all’agente – in virtù del rapporto contrattuale esistente tra le parti – per l’attività resa in proprio favore, ritenendo in tal modo che la quota di corrispettivo versato dalla società in accredito della fattura pro-forma emessa dal procuratore sportivo si configuri come fringe benefit a favore del calciatore stesso, su cui il datore di lavoro è chiamato ad operare le ritenute del sostituto d’imposta ex art. 23 del dPR n. 600/73.
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