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Il “principio dell’interesse prevalente” definisce l’imponibilità dei fringe benefits in capo al calciatore

Questo commento prende spunto dalla recente Cassazione n. 7377/2020 cercando di individuare, attraverso una sintetica ricostruzione dell’evoluzione normativa (fiscale e federale), le ragioni che hanno portato la Corte a sostenere per l’esistenza di un beneficio accessorio imponibile in capo al calciatore.

La sentenza: Cass. civ. Sez. V, 17 marzo 2020, n. 7377

Nell’ambito delle contestazioni formulate dall’Amministrazione finanziaria aventi a riguardo l’esistenza di un presunto beneficio accessorio di natura retributiva in capo a calciatori professionisti – per compensi corrisposti dalle società sportive a favore dei procuratori – occorre valutare se le attività rese da questi ultimi rivestano un interesse prevalente per il calciatore oppure per le società sportive. Nel primo caso, le somme corrisposte costituiscono reddito aggiuntivo di lavoro dipendente imponibile in capo al calciatore, dal momento che con il pagamento del compenso “in sostituzione” del giocatore la società sportiva garantirebbe a quest’ultimo un beneficio economico ulteriore rispetto alla retribuzione ordinaria; diversamente, l’accertamento di un interesse esclusivo o prevalente in capo al datore di lavoro dovrà essere provato in atti, documentando l’esistenza di un rapporto contrattuale diretto tra la società di calcio e il procuratore sportivo.

È questo il principio contenuto nella sentenza n. 7377/2020 della Corte di Cassazione, che prende le mosse da un PVC della Guardia di Finanza per l’anno 2002 rilasciato al termine di un controllo a carico di una società di calcio di Serie A, nel corso della quale sarebbe emerso che il club sportivo avrebbe corrisposto al proprio calciatore una retribuzione indiretta aggiuntiva, omettendo di operare le ritenute alla fonte previste in capo al sostituto d’imposta (art. 23 del d.P.R. n. 600/73). L’Agenzia delle entrate ha fatto proprie le conclusioni della verifica fiscale con l’emissione di un avviso di accertamento, ritenendo che il compenso riconosciuto dalla società al procuratore sportivo si qualificasse come un accollo del pagamento che il giocatore avrebbe dovuto corrispondere direttamente all’agente – in virtù del rapporto contrattuale esistente tra le parti – per l’attività resa in proprio favore, ritenendo la quota di corrispettivo versato dalla società in accredito della fattura pro-forma emessa dal procuratore sportivo quale “fringe benefit” a favore del calciatore stesso. Tale conclusione era rafforzata dalla considerazione che, secondo le norme federale vigenti, gli agenti dei calciatori non potevano rappresentare più di una parte nell’ambito della stessa operazione. A fondamento dell’impugnazione dell’avviso di accertamento, parte ricorrente sosteneva che il compenso versato dalla società calcistica al procuratore fosse relativo alla consulenza ricevuta dalla stessa nella preparazione del contratto di lavoro con il giocatore, secondo quanto previsto da una scrittura privata fra le parti.

Con la sentenza di primo grado, la CTP di Roma rigettava il ricorso del giocatore ritenendo che lo stesso fosse obbligato ad esporlo nella dichiarazione dei redditi in ragione del “principio di onnicomprensività” che sottende ai rapporti di lavoro dipendente. Difatti, i “fringe benefits” rappresentano elementi aggiuntivi della retribuzione ordinaria del lavoratore, forniti al dipendente in forme diverse dalle somme in denaro: concorrono pertanto alla formazione della base imponibile del dipendente laddove le spese siano sostenute nell’esclusivo interesse del lavoratore

In secondo grado, la CTR del Lazio inquadrava la questione su termini più specifici. Come primo aspetto, annotava che l’art. 10 del regolamento federale vigente all’epoca dei fatti imponeva il vincolo di doppio mandato. Difatti, il comma 1 recitava che “Un agente può curare gli interessi di un calciatore o di una Società, secondo quanto stabilito nel presente regolamento, solo dopo aver ricevuto incarico scritto”, pertanto l’agente sportivo poteva prestare la propria assistenza a favore del calciatore oppure della società previa compilazione del modulo federale blu (per la rappresentanza del giocatore) o rosso (per la rappresentanza della società calcistica), redatti in quadruplice copia, informando in tal modo anche le autorità federali del soggetto a favore del quale veniva svolta l’attività (ai sensi del comma 3, “L’agente può essere retribuito soltanto dal calciatore o dalla società che usufruisce dei suoi servizi”). In termini pratici, la documentazione probatoria raccolta dalla Guardia di Finanza nella verifica fiscale si componeva della fattura pro-forma emessa dal procuratore al club sportivo, corredata da una dichiarazione di debito sottoscritta da quest’ultimo, con la quale la società si accollava il costo della prestazione dell’agente senza che le parti avessero compilato il predetto modulo federale rosso. I giudici regionali hanno quindi ritenuto che l’importo corrisposto dalla società al procuratore sportivo dovesse essere tassato in capo al giocatore, in quanto si configurava quale corrispettivo per prestazioni professionali di assistenza e consulenza effettuate dal procuratore a favore del calciatore, pur se la società sportiva (con il pagamento “in sostituzione” del giocatore) se ne era effettivamente assunta l’onere.

La valutazione sulla (ir)rilevanza fiscale delle somme corrisposte al giocatore dal club sportivo

Occorre pertanto inquadrare il problema alla luce delle intervenute modifiche normative, fiscali e federali, nel corso del tempo.

Il rapporto di lavoro che lega giocatori professionisti e società sportive è disciplinato dalla Legge 23 marzo 1981, n. 91, sussistendo i requisiti di onerosità e continuità della prestazione sportiva resa dagli atleti nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato. Sotto un profilo fiscale, il rapporto fra le parti è regolato dall’art. 49 del TUIR e, in quanto ai criteri per la sua determinazione, dall’art. 51 del TUIR. La qualificazione tributaria dei redditi di lavoro subordinato trova corollario nel “principio di onnicomprensività”, secondo il quale costituiscono redditi di lavoro dipendente tutte le somme (stipendio) e i valori in genere (redditi in natura o “fringe benefits”) che derivano da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro, indipendentemente dal nesso sinallagmatico tra l’effettività della prestazione di lavoro reso e le somme e i valori percepiti. In particolare, rappresentano elementi aggiuntivi della retribuzione ordinaria le spese sostenute dal datore di lavoro nell’esclusivo interesse del lavoratore, che pertanto concorrono alla formazione della base imponibile di quest’ultimo.

Tuttavia, è nel momento in cui si è sviluppata un’intensa attività accertatrice del Fisco sui compensi corrisposti dalle società calcistiche a favore dei procuratori sportivi per attività di intermediazione, assistenza e consulenza connessa alla stipulazione dei contratti di prestazione sportiva, che la questione ha assunto una dimensione pubblica. Difatti, facendo leva sulla disposizione tributaria sopra richiamata, le somme (o una parte di esse) corrisposte ai procuratori sportivi venivano riqualificate come componente aggiuntiva della retribuzione in capo ai calciatori (benché, come si vedrà più avanti, era fatto divieto per le norme federali agire con “doppio mandato” per il procuratore), con una serie di conseguenze sotto il profilo tributarie (finanche penale):

  • al giocatore, poteva essere contestata l’omessa dichiarazione di redditi imponibili ai fini Irpef;
  • alla società sportiva, l’indeducibilità ai fini Ires e Irap dei costi sostenuti verso il procuratore sportivo, nonché l’omessa effettuazione di ritenute a titolo di acconto sulla parte di retribuzione in natura corrisposta al proprio dipendente e l’indetraibilità dell’Iva esposta in fattura per difetto di inerenza;
  • all’agente sportivo, il reato di emissione di fatture soggettivamente inesistenti, dal momento che la fattura emessa recherebbe un committente (la società sportiva) differente da quello reale (lo sportivo).

Insomma, l’attenzione generata era stata tale che il legislatore era intervenuto con l’introduzione di una norma, sotto forma di presunzione legale assoluta contenuta nell’art. 51, co. 4-bis del TUIR, in forza della quale – a partire dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013 – ai fini della determinazione delle somme e valori che concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente, “per gli atleti professionisti si considera altresì il costo dell’attività di assistenza sostenuto dalle società sportive professionistiche nell’ambito delle trattative aventi ad oggetto le prestazioni sportive degli atleti professionisti medesimi, nella misura del 15%, al netto delle somme versate dall’atleta professionista ai propri agenti per l’attività di assistenza nelle medesime trattative”. La norma, così come strutturata, non permetteva al giocatore (in linea di principio) di fornire prova contraria circa l’effettiva dell’onere in capo alla società sportiva, con l’estrema (quanto assurda) possibilità che lo stesso avrebbe potuto anche subire un “doppio fringe benefit”, qualora le società interessate al trasferimento delle prestazioni sportive del giocatore avessero operato con un proprio agente di fiducia. Insomma, la situazione presentava indubbi elementi di criticità da indurre il legislatore a disporre per l’abolizione della norma a partire dal 1° gennaio 2016 e senza peraltro aver cura di istituire un regime transitorio, pur rimanendo applicabili i principi generali di tassazione validi per i “fringe benefits” ai dipendenti.

Anche da un punto di vista regolamentare le norme sugli agenti sportivi in Italia hanno subito un’evoluzione, compatibilmente alle disposizioni emanate dalla FIFA con effetto dal 1° aprile 2015 nell’ambito della cd. deregulation per i servizi di procuratore sportivo. Il loro recepimento da parte della FIGC ha difatti comportato che, con il “Regolamento per i servizi di procuratore sportivo”, fosse disposto (dal 1° gennaio 2016) il superamento del cd. “divieto di doppio mandato” che impediva agli agenti sportivi di rappresentare, allo stesso tempo e nella medesima trattativa, il calciatore e la società sportiva (l’art. 7.1 recitava difatti così: “Il Procuratore Sportivo deve indicare chiaramente nel Contratto di Rappresentanza se agisce nell’interesse di una sola parte contrattuale o di più parti e in tal caso deve ottenere il consenso scritto di tutte le parti interessate”).

Il principio dell’interesse prevalente

Le considerazioni sopra esposte vanno analizzate di pari passo con l’elemento centrale che caratterizza la sentenza in commento: la valutazione dell’interesse esclusivo o prevalente del giocatore o della società nelle prestazioni professionali fornite dall’agente sportivo. Questo perché all’epoca dei fatti, quindi nel 2002, la disciplina fiscale non conteneva la norma prevista dal comma 4-bis dell’art. 51 del TUIR e le regole federali non permettevano all’agente sportivo di assumere una doppia rappresentanza di società calcistica e giocatore.

Un primo orientamento in ambito strettamente sportivo era stato fornito dalla Circolare 20 dicembre 2013, n. 37/E, dove si chiedeva di conoscere il regime fiscale nei caso di beni assegnati ai calciatori in esecuzione di adempimenti contrattuali assunti dalla società di tesseramento con alcuni sponsor, come nel caso di griffe della moda fornitrici di capi d’abbigliamento costituenti la divisa ufficiale o di veicoli forniti perché venissero obbligatoriamente guidati dai componenti della prima squadra per raggiungere il centro di allenamento o lo stadio, e per beni diversi da esibire/indossare anche in occasioni di manifestazioni organizzate dallo sponsor (orologi, ecc…). In tal caso, l’Agenzia ha avuto modo di affermare che la questione dovesse essere risolta valutando se fosse prevalente l’interesse del club/datore di lavoro o del calciatore che poteva beneficiare senza corrispettivo di tali gratuità. Ebbene, sussistendo un obbligo a che la società sportiva imponesse ai propri tesserati l’utilizzo di tali beni in pubbliche occasioni, doveva ritenersi prevalente l’interesse del club. Diversamente, in mancanza di tale obbligazione e ritenendo quindi possibile un interesse del calciatore all’utilizzo di tali beni (come potrebbe accadere nel caso in cui al termine del contratto gli stessi non vengano restituiti allo sponsor), potrebbe figurarsi una ipotesi di accessorietà dei beni forniti ai calciatori, sui quali la società potrebbe essere chiamata a rispondere per ritenute su redditi di lavoro dipendente su compensi riconducibili alla sfera professionale.

In termini più generali, sull’imponibilità dei fringe benefits in capo al lavoratore, sono intervenute anche la Circolare 23 dicembre 1997, n. 326/E, la Circolare 4 marzo 1999, n. 55/E e la Risoluzione 12 agosto 2019, n. 77/E. Quest’ultimo documento, in particolare, ha il pregio di ripercorrere in sintesi i principi richiamati dai precedenti documenti di prassi, permettendo di trarre delle conclusioni generali con riguardo all’eventuale concorso a tassazione di beni e servizi erogati dal datore di lavoro. Pertanto, senza pretesa di esaustività, è possibile affermare che non concorrono alla formazione del reddito imponibile del dipendente:

  • le somme e i valori corrisposti al dipendente qualora non costituiscano un arricchimento per quest’ultimo, come nel caso in cui siano erogate a semplice titolo di reintegrazione patrimoniale per il dipendente. Rientrano in questa casistica le spese rimborsate dalla società per costi di trasporto sostenuti dal giocatore in occasione del ritiro pre-campionato in un comune diverso da quello ove è situata la sede sociale;
  • le erogazioni al dipendente effettuate per un esclusivo o prevalente interesse del datore di lavoro;
  • le somme e i valori connessi ad obbligazioni contrattuali assunti fra il datore di lavoro e gli sponsor. In tale caso, difatti, l’utilizzo in pubblico di beni assegnati al calciatore risponderebbe ad un prevalente interesse del datore di lavoro che, in mancanza di tale adempimento, dovrebbe corrispondere una penale.

Ritornando alla vicenda che qui interessa, i giudici hanno ritenuto che la mancanza di un quadro probatorio corroborato da evidenze che attestassero lo svolgimento dell’attività dell’agente sportivo a favore della società calcistica (compilazione del modulo federale rosso, contratto formalizzato fra le parti, etc) deponesse a favore di un interesse esclusivo o principale del giocatore, anche “in virtù del rapporto contrattuale esistente tra lo sportivo e il procuratore”, con relativa ripresa a tassazione delle somme versate dal club calcistico all’agente sportivo.

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L’articolo è stato oggetto di prima pubblicazione sul sito Diritto 24 – Il Sole 24 Ore.